I cittadini di 8 province privati del loro diritto di voto… è così che si salva l’Italia?

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Il delitto è finalmente consumato.

E’ arrivata la scadenza elettorale amministrativa, per molti ma non per tutti.

I cittadini di otto Province italiane – in virtù di quanto disposto da un decreto legge, in considerazione della straordinaria necessità ed urgenza di “salvare l’Italia” – non potranno esercitare il loro diritto di elettorato per il rinnovo dei propri rappresentanti nella Province.

I “fortunati” pionieri di questa riforma “salva Italia” sono i cittadini di Vicenza, Ancona, Ragusa, Como, Belluno, Genova, La Spezia e Caltanissetta.

In Sardegna, anziché votare per il rinnovo degli amministratori della Provincia di Cagliari, i cittadini saranno chiamati ad esprimersi su 5 referendum abrogativi regionali e i 5 referendum consultivi regionali relativi alla soppressione delle nuove Province e ad una consultazione su alcuni temi relativi all’organizzazione amministrativa della Regione.

Finalmente!

Finalmente i tanti sostenitori della “grande” riforma possono ritenersi soddisfatti!

I cittadini delle Province interessate potranno verificare direttamente quanti benefici deriveranno loro da questa rivoluzione.

Sui costi-benefici della soppressione delle Province e sull’esigenza di una riforma organica, che superi gli slogan, abbiamo già detto e rinviamo ai precedenti interventi sull’argomento.

Su un punto vogliamo porre oggi l’attenzione.

Cosa accade oggi nelle otto Province private del diritto di elettorato?

La risposta dovrebbe rinvenirsi nell’art. 23, comma 20, del D. L. 6 dicembre 2011 n. 201, convertito in Legge 22 dicembre 2011 n. 214, che così prevede: “Agli organi provinciali che devono essere rinnovati entro il 31 dicembre 2012 si applica, sino al 31 marzo 2013 l’art. 141 del D. Lgs. 267/2000 e successive modificazioni. Gli organi provinciali che devono essere rinnovati successivamente al 31 dicembre 2012 restano in carica fino alla scadenza naturale. Decorsi i termini di cui al primo e al secondo periodo del presente comma, si procede all’elezione dei nuovi organi provinciali di cui ai commi 16 e 17.”

Dunque si applica – sino al 31 marzo 2013 – l’art. 141 del D. Lgs. 267/2000.

Sino al 31 marzo 2013. Ma da quando?

L’art. 38, comma 5, del D. Lgs. 267/2000 prevede: “I consigli (comunale e provinciale) durano in carica sino all’elezione dei nuovi, limitandosi, dopo la pubblicazione del decreto di indizione dei comizi elettorali, ad adottare gli atti urgenti e improrogabili”.

Norma questa inapplicabile, visto che non è prevista l’elezione di nuovi consigli se non con l’elezione dei nuovi organi, sulla base della legge elettorale da approvare ai sensi dell’art. 23, commi 16 e 17, del decreto “salva Italia”, come organi di secondo grado.

I Consigli oggi in carica, non trovandosi nella condizione di cui all’ultimo periodo del comma 5 dell’art. 38, sono da ritenere nella pienezza delle funzioni, e quindi possono deliberare senza limitazioni o possono “solo adottare gli atti urgenti e improrogabili”?

Nessuna risposta.

Dovrebbe dunque trovare applicazione l’art. 51, comma 1, del D. Lgs. 267/2000: “Il sindaco e il consiglio comunale, il presidente della provincia e il consiglio provinciale durano in carica per un periodo di cinque anni”.

Visto che la scadenza degli organi in carica non è collegabile all’elezione dei nuovi, allora si dovrebbe fare riferimento alla scadenza di cinque anni.

Le elezioni provinciali – per le Province interessate – si sono svolte il 27 e 28 maggio 2007, con proclamazione degli eletti verosimilmente il 29 o il 30 maggio.

Quindi gli organi in carica dovrebbero decadere il 29 maggio 2012.

Ma anche su questo ad oggi non è pervenuta alcuna indicazione.

Dunque – ipotizziamo – dal 29 maggio 2012 al 31 marzo 2013 si applica l’art. 141 del D. Lgs. 267/2000

L’art. 141 del D. Lgs. 267/2000, sotto la rubrica “Scioglimento e sospensione dei consigli comunali e provinciali” prevede: “I consigli comunali e provinciali vengono sciolti con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro dell’interno:

a)quando compiano atti contrari alla Costituzione o per gravi e persistenti violazioni di legge, nonché per gravi motivi di ordine pubblico;

b)quando non possa essere assicurato il normale funzionamento degli organi e dei servizi per le seguenti cause:

1)impedimento permanente, rimozione, decadenza, decesso del sindaco o del presidente della provincia;

2)dimissioni del sindaco o del presidente della provincia;

3)cessazione dalla carica per dimissioni contestuali, ovvero rese anche con atti separati purché contemporaneamente presentati al protocollo dell’ente, della metà più uno dei membri assegnati, non computando a tal fine il sindaco o il presidente della provincia;

4)riduzione dell’organo assembleare per impossibilità di surroga alla metà dei componenti del consiglio;

c)quando non sia approvato nei termini il bilancio;

d)nelle ipotesi in cui gli enti territoriali al di sopra dei mille abitanti siano sprovvisti dei relativi strumenti urbanistici generali e non adottino tali strumenti entro diciotto mesi dalla data di elezione degli organi. In questo caso, il decreto di scioglimento del consiglio è adottato su proposta del Ministro dell’interno di concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti”.

(…)

4. Il rinnovo del consiglio nelle ipotesi di scioglimento deve coincidere con il primo turno elettorale utile previsto dalla legge.

5. I consiglieri cessati dalla carica per effetto dello scioglimento continuano ad esercitare, fino alla nomina dei successori, gli incarichi esterni loro eventualmente attribuiti.

L’art. 141 individua quindi le ipotesi tassative di scioglimento anticipato dei consigli provinciali e comunali; non dispone alcunché ovviamente in tema di sospensione del rinnovo elettorale; al contrario al comma 4 precisa che “Il rinnovo del consiglio nelle ipotesi di scioglimento deve coincidere con il primo turno elettorale utile previsto dalla legge”.

Dunque, seguendo l’interpretazione letterale della norma, come sarebbe previsto dall’art. 12 delle Preleggi, la disposizione non avrebbe alcun effetto, in quanto direbbe ciò che è già previsto e cioè che agli organi provinciali si applica l’art. 141 del D. Lgs. 267/2000; anzi, a volere ulteriormente disquisire, sembrerebbe una norma che circoscrive l’ambito di applicazione dell’art. 141 esclusivamente “agli organi provinciali che devono essere rinnovati entro il 31 dicembre 2012 e sino al 31 marzo 2013”.

Evidentemente non ha alcun senso.

Come non avrebbe alcun senso giuridico, se non quello di ribadire un principio ovvio, la disposizione contenuta nel secondo periodo del comma 20: “Gli organi provinciali che devono essere rinnovati successivamente al 31 dicembre 2012 restano in carica fino alla scadenza naturale”.

Ovvio, si direbbe.

Per cercare di interpretare l’intenzione del legislatore forse soccorre l’ultimo periodo del comma 20: “Decorsi i termini di cui al primo e al secondo periodo del presente comma, si procede all’elezione dei nuovi organi provinciali di cui ai commi 16 e 17”.

Ma i commi 16 e 17 fissano principi generali non immediatamente applicabili (16.  Il Consiglio provinciale è composto da non più di dieci componenti eletti dagli organi elettivi dei Comuni ricadenti nel territorio della Provincia. Le modalità di elezione sono stabilite con legge dello Stato entro il 31 dicembre 2012. 17.  Il Presidente della Provincia è eletto dal Consiglio provinciale tra i suoi componenti secondo le modalità stabilite dalla legge statale di cui al comma 16), in quanto rinvia alla legge dello Stato che deve essere emanata entro il 31 dicembre.

Ed allora si può davvero considerare compatibile con il nostro ordinamento giuridico che da tali disposizioni, così maldestramente formulate se non altro in rapporto ad una buona tecnica legislativa, derivino come effetti che:

1)Si possano sospendere le elezioni amministrative per il rinnovo di sette consigli provinciali pur in assenza di una nuova disciplina elettorale?

2)Si possa estendere l’applicazione della normativa straordinaria sullo scioglimento anticipato di organi democraticamente eletti e sul commissariamento di Enti costitutivi della Repubblica ad una fattispecie nuova, diversa, non patologica, introdotta con decreto legge e riferita alla scadenza naturale degli organi stessi?

Ma questa, appare fuor di dubbio, essere l’intenzione del legislatore!

Se questa è l’intenzione del legislatore, dal 29 maggio 2012 al 31 marzo 2013, le Province dovrebbero essere amministrate da un Commissario.

Sempre secondo l’art. 141, al verificarsi delle tassative condizioni indicate, dovrebbe essere emanato un “decreto di scioglimento con cui si provvede alla nomina di un commissario, che esercita le attribuzioni conferitegli con il decreto stesso”.

Dunque la decadenza degli organi in carica non è automatica, alla scadenza del quinquennio, ma bisogna attendere il decreto di scioglimento.

L’art. 141 stabilisce infine che “I consiglieri cessati dalla carica per effetto dello scioglimento continuano ad esercitare, fino alla nomina dei successori, gli incarichi esterni loro eventualmente attribuiti”.

E dopo il 31 marzo 2013?

L’unico riferimento ad oggi possibile è un rinvio al testo del disegno di legge approvato in via definitiva dal Consiglio dei Ministri del 6 aprile 2012, su proposta del Ministro dell’Interno, che disciplina le modalità di elezione di secondo grado dei Consigli provinciali e dei Presidenti della Provincia.

Tale disegno di legge prevede un nuovo “modello elettorale provinciale” di tipo proporzionale, fra liste concorrenti, senza la previsione di soglie di sbarramento e di premi di maggioranza così caratterizzato:

a.elezione contestuale del Consiglio provinciale e del suo Presidente;

b.elettorato passivo riservato ai Sindaci e consiglieri in carica al momento della presentazione delle liste e della proclamazione;

c.ciascuna candidatura alla carica di Presidente della Provincia è collegata a una lista di candidati al Consiglio provinciale;

d.i votanti possono esprimere fino a due preferenze: se decidono di esprimere la seconda preferenza, una delle due deve riguardare un candidato del Comune capoluogo o di sesso diverso da quello a cui è destinata la prima preferenza;

e.è proclamato Presidente della Provincia il candidato che ottiene il maggior numero di voti. In caso di parità si prevede il ballottaggio. In caso di ulteriore parità è eletto il più anziano d’età;

f.Le cariche di Presidente e Consigliere provinciale sono compatibili con quelle di Sindaco e Consigliere comunale;

g.È vietato il cumulo degli emolumenti.

Richiamiamo al riguardo soltanto alcuni passaggi del parere dell’UPI, che ci appaiono pienamente condivisibili, espresso in Conferenza Unificata il 4 aprile 2012:

“Il sistema elettorale rappresenta il cuore del legame tra le istituzioni territoriali e le loro comunità. Nel nostro sistema costituzionale le leggi elettorali sono rimesse alla legislazione ordinaria ai fine di consentire la possibilità di adeguamenti nel tempo che tengano conto dell’evoluzione democratica del Paese. Ma è un dato certo che la democrazia locale è l’espressione, la più alta, dell’autonomia dell’ente che è stata riconosciuta a più riprese dalla Costituzione e dalla Carta europea delle autonomie locali.

Il principio autonomista implica il principio democratico e ciò richiede che il popolo deve avere una rappresentanza che emerga da elezioni generali, dirette, libere, uguali e segrete e che la rappresentanza abbia una consistenza tale da conseguire due risultati: in primo luogo, l’espressione del pluralismo politico, compatibilmente con la governabilità; in secondo luogo, la capacità di indirizzo e controllo da parte della rappresentanza medesima sull’ente.

La scelta di eleggere i consigli provinciali attraverso un elezione di secondo grado, come organi di espressione degli amministratori comunali, priva i cittadini del territorio provinciale del diritto di eleggere e controllare direttamente un ente peraltro previsto dalla Costituzione come elemento costitutivo della Repubblica.

Per questi motivi, l’UPI ribadisce la necessita di prevedere comunque una elezione diretta degli organi di governo della Provincia, che hanno la funzione di rappresentare comunità provinciale nel Paese.

La soluzione adottata nel ddl al contrario non riesce a dare una risposta equilibrata alle esigenze di rappresentanza di tutto il territorio provinciale che oggi hanno un punto di riferimento nel sistema elettorale provinciale basato su collegi territoriali, né riesce a tenere conto in modo adeguato della rappresentanza delle diverse forze politiche nei territori e dei necessari equilibri fra maggioranze e minoranze”.

Dunque: incertezza sulla scadenza degli organi in carica; incertezza sulla nomina dei Commissari; incertezza sul futuro e sulle nuova modalità di elezione.

Era proprio necessario tutto questo?

Era proprio necessario creare un conflitto istituzionale di tale portata?

Contro l’articolo 23 del decreto Salva Italia fanno ricorso, per evidente vizio di incostituzionalità, 8 Regioni: Lombardia, Piemonte, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Campania, Molise, Sardegna.

Contro la mancata convocazione dei comizi elettorali della prossima tornata elettorale hanno presentato ricorso al TAR le Province di: Ancona, La Spezia, Vicenza e Como oltre ad un gruppo di cittadini organizzato della provincia di Belluno.

Un primo risultato è stato raggiunto: nasce una palese disparità nella rappresentanza di alcuni territori.

I cittadini di otto Province – a differenza delle altre – non avranno più una rappresentanza politica portatrice dei loro interessi in tutte le sedi istituzionali, ma saranno rappresentanti da un Commissario – non eletto ma nominato – che non risponde delle proprie scelte agli elettori ma al Ministro dell’Interno che l’ha nominato.

Con quale mandato un commissario potrà decidere se approvare un no ad esempio un piano urbanistico comunale?

Sulla base di quale autorità rappresentativa potrà stabilire le priorità negli investimenti ad esempio su scuole o su viabilità?

Sulle priorità nella destinazione delle risorse? Sulle scelte in merito al futuro assetto istituzionale nei tavoli di coordinamento?

E’ possibile che non ci renda conto del grave vulnus al sistema democratico ed al diritto di elettorato attivo si sta determinando in questo modo?

Ci sarà un motivo se solo nel periodo fascista si registra, nella storia d’Italia, la sospensione del sistema elettivo degli Enti Locali: la legge 237 del 4 febbraio 1926 che sopprimeva, nei comuni con meno di 5000 abitanti (ma il provvedimento fu esteso nel settembre dello stesso anno a tutti i comuni), l’elezione di consiglio e sindaco, sostituito dal podestà, unico organo deliberante del Comune, nominato con decreto regio; la legge 6 aprile 1926 attribuiva poteri politici ai prefetti, che diventavano rappresentanti del governo nelle province (circolare del 5 gennaio 1927) e infine la legge n. 2960 del 27 novembre 1928, che sanciva infine un nuovo ordinamento per le amministrazioni provinciali: veniva anche qui abolito il sistema elettivo: un “preside” avrebbe sostituito le funzioni del presidente della Deputazione e della Deputazione stessa, un “rettore” il Consiglio provinciale.

Era proprio necessario anteporre una decisione di tale portata ad una revisione ponderata di riordino istituzionale e di riassetto delle competenze?

La discussione avviata in Parlamento è auspicabile in ogni caso che riesca a superare e modificare radicalmente i contenuti di un provvedimento affrettato, confuso, dettato esclusivamente dalla necessità di offrire al dibattito mediatico quel “taglio” tanto invocato, ma purtroppo altrettanto poco ponderato, da chi, cavalcando le indubbie e gravissime difficoltà del nostro sistema politico ed economico, propone soluzioni devastanti per l’intero assetto costituzionale dello Stato ed in particolare per le Autonomie Locali, che andrebbero al contrario rafforzate e tutelate nell’erogazione dei servizi essenziali, in quanto oggi, molto più che il ritorno al centralismo, da sole possono riuscire a tentare di interpretare e gestire le aspettative e i bisogni dei cittadini.

La “grande riforma”, infatti lungi dal consentire risparmi – come indicato espressamente dalle relazioni tecniche della Camera e del Senato, che non hanno ritenuto di potere quantificare alcuna cifra dai risultati delle misure stesse – produce notevoli costi aggiuntivi per lo Stato e per la Pubblica amministrazione, ingenera caos nel sistema delle autonomie e conseguenze pesanti per lo sviluppo dei territori e sta già producendo effetti devastanti sulle economie locali, poiché produce il blocco degli investimenti programmati e in corso delle Province.

Se dunque è ormai chiaro che il Governo Monti difficilmente vorrà o potrà retrocedere dalla scelta di vedere nelle Province il capro espiatorio e che quindi una riforma dovrà essere attuata, occorre finalmente procedere al riordino dell’organizzazione delle istituzioni, in modo da razionalizzarne funzioni e costi, però in modo organico e complessivo, attraverso una revisione costituzionale del nostro ordinamento e non certo con decretazione d’urgenza.

Da tempo l’UPI chiede un confronto su una proposta organica di riforma su questi punti fondamentali:

Ciascuna provincia deve avere una dimensione adeguata dal punto di vista demografico, territoriale ed economico, per l’esercizio delle funzioni fondamentali previste dalla Legge sul federalismo fiscale.

Per razionalizzare le circoscrizioni territoriali, lo Stato e le Regioni a Statuto speciale procedono alla riduzione del numero delle Province e alla ridefinizione delle circoscrizioni provinciali, anche in conseguenza dell’istituzione delle città metropolitane.

Conseguentemente alla nuova delimitazione delle circoscrizioni provinciali e metropolitane, vengono accorpati gli uffici territoriali del governo.

Si prevede che le funzioni amministrative siano esercitare dai Comuni, dalle province e dalle città metropolitane: si eliminano quindi tutti gli enti o le agenzie statali, regionali e degli enti locali.

Si prevede l’istituzione delle Città metropolitane. Il territorio della città metropolitana coincide con il territorio di una o di più province. La città metropolitana acquisisce tutte le funzioni della provincia e le funzioni del comune capoluogo.

La città metropolitana prende il posto della provincia e del comune capoluogo e si articola al suo interno in comuni metropolitani.

Dall’attuazione di una riforma organica con tali contenuti ci si può attendere un risparmio di almeno 5 miliardi.

Vorrà finalmente il Governo aprire un confronto serio sull’argomento?

Carlo Rapicavoli

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