Bce: province da accorpare, non più eliminare

Luigi Oliveri 02/05/12
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Sulle province continua senza sosta il balletto delle incertezze. Abolirle, fonderle, sostituirle con i comuni, con le regioni, devolvere le competenze o eliminarle?

Che intervenire sulle province sia necessario tutti lo dicono, come procedere nessun lo sa. Anzi, la confusione regna sempre più sovrana.

Da ultimo, la Banca Centrale Europea, per voce di Mario Draghi, ha invitato il Governo italiano ad “accorpare” le province, come misura che consentirebbe certamente un chiaro risparmio ai costi della politica.

Dunque, si torna ad utilizzare un verbo, “accorpare”, che non prevede l’eliminazione dell’ente (voce del verbo “sopprimere”), ma la sua conservazione, ma razionalizzandone il numero.

La Bce ha forse cambiato idea? Si direbbe proprio di no, rileggendo il passaggio della famosa lettera dell’8 agosto 2011 (scritta a tre mani da Draghi, Trichet e Tremonti) riguardante la questione: “3. Incoraggiamo inoltre il Governo a prendere immediatamente misure per garantire una revisione dell’amministrazione pubblica allo scopo di migliorare l’efficienza amministrativa e la capacità di assecondare le esigenze delle imprese. Negli organismi pubblici dovrebbe diventare sistematico l’uso di indicatori di performance (soprattutto nei sistemi sanitario, giudiziario e dell’istruzione). C’é l’esigenza di un forte impegno ad abolire o a fondere alcuni strati amministrativi intermedi (come le Province). Andrebbero rafforzate le azioni mirate a sfruttare le economie di scala nei servizi pubblici locali”.

Come si nota, checché ne possa dire chiunque, nell’estate scorsa la Bce non chiese affatto (la famosa tiritera dell’«Europa che ce lo chiede»…) sic et simpliciter di abolire le province, ma di verificare se fosse opportuno “abolire o fondere” strati intermedi dell’organizzazione istituzionale, facendo riferimento alle province solo come esempio.

E’, tuttavia, bastata questa semplice e anche logica osservazione della Bce-commissario dell’Italia, perché la campagna già da tempo in atto, ringalluzzisse gli Stella-Rizzo ed epigoni vari, per l’eliminazione pura e semplice delle province. Da qui, la cieca e sorda ottemperanza del Governo-Monti alle presunte indicazioni dell’«Europa che ce lo chiede» che ha prodotto il paradossale disegno contenuto nell’articolo 23 del d.l. 201/2011, convertito in legge 214/2011 (il cosiddetto decreto pomposamente denominato “Salva Italia”, con le province, proviamo a pensarci, chiamate a salvare il Paese…).

Detto articolo ha previsto un garbuglio inestricabile, dal quale emerge:

a)      le province non si aboliscono, né si accorpano, ma restano;

b)      tuttavia, le si priva delle loro funzioni, salvo imprecisate e imprecisabili funzioni di indirizzo e coordinamento dei comuni del territorio;

c)      le altre funzioni delle province (che né Stato né regioni sanno quali siano…) dovrebbero essere attribuite ai comuni o alle regioni, con leggi statali e/o regionali;

d)      le province divengono enti “di secondo grado”, i cui organi di governo, presidente, consiglio e giunta, sono una derivazione dei comuni del territorio, in quanto l’elettorato attivo spetta a sindaci e consiglieri comunali, secondo quanto ha stabilito un recente disegno di legge attuativo della previsione.

Dopo l’entusiasmo per la grande “ideona” contenuta nel decreto, però, qualche si è iniziato a guardare davvero dentro alla riforma e a fare delle considerazioni meno populiste e da inchiesta scandalistica.

Si è scoperto, ad esempio, che manca totalmente una norma di carattere tributario e finanziaria che regoli il passaggio delle competenze dalle province a comuni o regioni. L’attività ordinaria delle province è, infatti, finanziata in parte da trasferimenti statali e regionali, in altra parte – preponderante – da entrate tributarie e patrimoniali proprie. Qualunque ente si dovesse sostituire alle province nello svolgere le loro funzioni (che non potrebbero essere abolite) dovrebbe acquisire le connesse risorse per poterle svolgere. Ma, questo determinerebbe effetti devastanti sulle regole del patto di stabilità e sui tetti alle spese di personale per gli enti riceventi.

Mentre manca ancora totalmente un semplice barlume di norma che possa porre rimedio a questa carenza, nonché alla circostanza che regioni o comuni dovrebbero anche accollarsi il rilevantissimo carico finanziario degli obiettivi che le province assicurano al patto di stabilità, ci si è anche accorti che le funzioni di indirizzo e coordinamento non significano nulla, non servono a nulla e che occorre allora conservare alle province funzioni di area vasta.

A causa di ciò, le leggi regionali e statali che dovrebbero trasferire le funzioni provinciali a comuni o regioni sono per ora cadute nel dimenticatoio. Mentre, invece, è tornata in auge l’iniziativa normativa pomposamente denominata “Carta delle autonomie”, più empiricamente qualificabile come riforma del testo unico sull’ordinamento delle autonomie locali (d.lgs 267/2000), nell’ambito della quale si intende riattribuire alle province funzioni tipiche di “area vasta” come programmazione urbanistica, tutela dell’ambiente, manutenzione delle strade e sistema dei trasporti, ma contestualmente si eliminano due funzioni fondamentali che non possono non appartenere al livello provinciale, come l’edilizia scolastica e la rete dell’istruzione superiore, nonché il sistema delle politiche attive per il lavoro, per altro fortemente innovato dal contestuale disegno di legge-Fornero.

Un caos biblico, che per ora, a ben vedere, somiglia ancora al topolino partorito dalla Montagna.

A Francoforte probabilmente se ne sono resi conto. E la Bce, adesso, raddrizza il tiro e precisa meglio. Indicando che non è il caso di avventurarsi nella soppressione delle province, la quale per altro richiederebbe una riforma costituzionale per la quale non vi sono nemmeno i tempi tecnici (per non parlare degli immani costi amministrativi per trasferimento di immobili, utenze, titolarità di contratti e personale). Dunque, una più saggia indicazione volta all’accorpamento. Operazione estremamente più indolore e semplice rispetto ad una soppressione sic et simpliciter, in quanto molto più semplice da gestire sul piano finanziario e tributario: infatti, sarebbe possibile in modo trasparente garantire il rispetto degli obiettivi del patto di stabilità, non vi sarebbero problemi anche contrattuali nel trasferimento del personale, si ridurrebbero significativamente le “poltrone” politiche, non si determinerebbe la necessità di modificare radicalmente l’assetto della finanza locale e delle norme tributarie. E sarebbe anche possibile lasciare alle province tutte le funzioni tipiche di area vasta, le quali altro non sono se non quelle indicate dall’articolo 21 della legge 42/2009, cioè la legge delega sul federalismo fiscale, quella dei fabbisogni standard, tra l’altro già rilevati proprio in riferimento ai servizi per il lavoro e ai servizi riguardanti l’istruzione superiore. Sarebbe assurdo sprecare questo lavoro già svolto, che consentirebbe nelle province, per prime, di introdurre indicatori di produttività e standard di costi.

Lecito chiedersi se la nuova indicazione della Bce non sia stata impostata nuovamente a più mani, col Governo italiano, come strategia d’uscita dal vicolo cieco nel quale il Governo stesso, trascinato dalle invocazioni di Stella-Rizzo ed epigoni, si era cacciato con la in felicissima disposizione contenuta nell’articolo 23 del “Salva Italia”. Adesso, infatti, il Governo potrebbe dire che l’Europa non chiede di abolire le province, ma semplicemente di accorparle.

Si tornerebbe, così, mestamente, al disegno normativo già proposto con l’articolo 15 del d.l 138/2011 (la seconda manovra finanziaria estiva), poi quasi totalmente soppresso dalla legge 148/2011 di conversione, del 14 settembre.

Sette mesi buttati al vento, per tornare all’unica ipotesi oggettivamente plausibile, quella della riduzione delle province, ma non della loro soppressione, visto che il livello intermedio tra comuni e regioni non si presta ad essere eliminato. In Europa solo Cipro, Lichtenstein, Città del Vaticano e San Marino non hanno il livello provinciale. E lo stesso deleterio articolo 23 del “Salva Italia” prevede, come rimedio all’eliminazione delle funzioni amministrative in capo alle province che “I Comuni possono istituire unioni o organi di raccordo per l’esercizio di specifici compiti o funzioni amministrativi garantendo l’invarianza della spesa”. Insomma, il frettoloso decreto di fine anno ha puntato disordinatamente sulla sostanziale soppressione (anche se non di diritto) delle province, per sperare che nuove forme associative comunali ne prendessero il posto, senza considerare gli egoismi tipici dei campanili e, soprattutto, senza ricordarsi della più che fallimentare esperienza delle unioni dei comuni, utili non per rafforzare e razionalizzare i servizi, ma per creare enti ancora più deboli e inefficienti.

La Bce, adesso, precisa che le province occorre accorparle e non eliminarle. Ma nessuno intende prendere in seria considerazione la necessità di partire a razionalizzare l’organizzazione pubblica in primo luogo eliminando proprio tutti gli enti intermedi tra comuni e province come unioni, consorzi, comunità montane (a proposito, ma anche queste non dovevano essere soppresse), nonché la quantità enorme di enti ed entucoli regionali, i consorzi di bonifica, i consorzi imbriferi, i magistrati delle acque e altre simili parcellizzazioni dell’azione amministrativa, che si presterebbero con estrema facilità ad essere ricondotti proprio al livello di governo provinciale.

Vedremo se occorrerà attendere l’ennesima lettera o segnale di fumo dell’«Europa che ce lo chiede» o se saremo capaci noi, finalmente, di ragionare davvero con le nostre teste, pensando a ciò che è utile e possibile.

Luigi Oliveri

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