Oracle v. Google, scontro tra titani

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E’ stato definito il processo più importante nel settore IT degli ultimi anni. Alcuni analisti prevedono che l’esito della causa “Oracle v. Google” sarà determinante non solo per il futuro delle due società ma anche per tutto l’indotto, per i produttori di smartphone, che grazie al sistema operativo Android hanno visto crescere esponenzialmente le loro quote di mercato nel settore (in primis la coreana Samsung), e per tutti gli sviluppatori, anche indipedenti, che utilizzano la relativa piattaforma.

Di cosa tratta la causa?

Nulla di particolarmente nuovo, si tratta di violazione di proprietà intellettuale relativa a programmi per elaboratore. I procedimenti giudiziali in questa materia, soprattutto negli Stati Uniti, sono innumerevoli. Ciò che desta interesse è, ovviamente, il nome delle società in causa, Oracle, società storica della Silicon Valley e colosso nel mercato dei database, e la ben più giovane Google, indiscusso leader nel mercato dei motori di ricerca. Ma l’attenzione è rivolta soprattutto all’oggetto del contendere, il sistema operativo Android che in pochi anni ha rastrellato incessantemente quote nel mercato dei sistemi operativi per device mobili, giungendo addirittura a scalzare l’analogo sistema di Apple negli Stati Uniti d’America.

In particolare, le ipotesi di violazione hanno ad oggetto alcuni brevetti di interfacce grafiche ed i diritti d’autore del linguaggio di programmazione Java, diritti ora di titolarità di Oracle in seguito all’acquisizione di Sun Microsystems. Al di là delle questioni giuridiche alla base del processo, che potrebbero essere valutate appieno solo quando la sentenza sarà pubblicata, il caso ha ad oggetto un tema da cui emergono diversi spunti di riflessione interessanti, in realtà nemmeno questi nuovi, che estendono la tematica ben oltre la discussione in corso presso l’aula del giudice adito, la Northern District of California.

Da quando Oracle ha acquisito Sun Microsystems nel gennaio 2010, la comunità mondiale degli sviluppatori di Software Libero è fortemente amareggiata. Prodotti come OpenOffice, Java, Solaris e molti altri che Sun aveva sviluppato e rilasciato da sempre con libertà di utilizzo, ed il cui successo è dovuto quindi anche all’apporto della comunità stessa, passavano all’improvviso nelle mani di una software house senza alcuna vocazione per la libertà degli utenti.

La causa contro Google è stata quindi vista come il primo atto formale riconducibile ad un prevedibile, massiccio e letale attacco al Software Libero da parte di Oracle, come l’inizio di una sua personale guerra su larga scala.

In realtà, Oracle, anche se di certo non è una comunità di sviluppatori indipendenti di Software Libero e in qualche modo nemmeno li rappresenta o li tutela, ha forti interazioni e relazioni commerciali con grandi produttori di Software Libero, lo era Sun e attualmente lo è anche Red Hat e molte altre.

Google, nonostante il “look and feel” più giovanile, non è tanto diversa da Oracle. E’ anch’essa una società volta al profitto e quotata al Nasdaq, anzi, i suoi fatturati sono sostanzialmente pari a quelli di Oracle. Gli sviluppatori di entrambe le società sono dipendenti che scrivono codice esclusivamente per le loro società e non decidono delle sorti del codice da loro creato.

Però Android è Software Libero, replicherebbero in molti, mentre Oracle è contraria a quella tipologia di distribuzione dei programmi.

Android è rilasciato con una licenza, la “Apache License, Version 2”, compatibile con la licenza di Software Libero per antonomasia, la General Public License (GPL), ovvero, la licenza che ha determinato la nascita del Software Libero stesso. Apache si può considerare una licenza di Software Libero ma le sue condizioni contrattuali consentono azioni che portano a risultati diversi da quelli voluti dalla GPL e che si allontanano quindi dai principi ideati e fortemente voluti da Richard Stallman e dalla Free Software Foundation.

Diverse componenti del sistema operativo Android non possono infatti essere considerate Software Libero, come lo stesso Richard Stallman ha affermato lo scorso settembre attraverso le pagine del Guardian. Google ha scelto non a caso di adottare una licenza di Software Libero per così dire “debole” o “permissiva” come la Apache. Questa licenza concede a chiunque la libertà nell’utilizzo del codice ma tale concessione, eccessivamente ampia, consente anche la libertà di utilizzare lo stesso codice per sviluppare software che possa a sua volta essere rilasciato con licenza “proprietaria”, lasciando impregiudicate solo le parti sottoposte espressamente ad una licenza di diverso tipo.

Samsung, per esempio, sviluppa un suo sistema Android ottimizzato per i suoi dispositivi e lo rilascia con una sua licenza.

La licenza di Software Libero cosidetta “forte”, invece, come per esempio la GPL, oltre a concedere la libertà di utilizzo, è caratterizzata dall’obbligo di rilasciare (ripubblicare) il codice eventualmente modificato con la stessa licenza. Tale concetto è di assoluta rilevanza ed è definito “effetto virale” della licenza. In pratica, tutto il codice sviluppato per funzionare in associazione con Software Libero, dev’essere a sua volta coperto con la stessa licenza, pena la caducazione dell’intera licenza. La GPL, per esempio, è chiara su questo punto “I programmi coperti da GPL non possono essere incorporati all’interno di programmi non liberi”.

Ma bisogna tenere presente che il software non è un’entità statica e monolitica, bensì un insieme fittissimo di altri software, se per software intendiamo una serie di istruzioni impartite al computer. Per cui, è possibile che nel modello “a cascata” di ridistribuzione del Software Libero, grazie alla disponibilità del codice sorgente completo e alla possibilità di modifica garantite dalla licenza, qualche sviluppatore voglia scorporare il pacchetto software e rielaborarne solo una parte, oppure decida di fare interagire un software di derivazione libera con un software proprietario.

E’ il tipico caso delle librerie e delle cosidette “classi” di Java utilizzate in Android. Queste sono delle “raccolte di funzioni” precompilate (dette anche “routine”) funzionali al software che le incorpora ma da esso ben distinguibili e, per questo, sottoponibili a licenze diverse dal software per le quali sono utilizzate.

Un’eccessiva rigidità (come per certi versi è quella della GPL) può risultare controproducente allo sviluppo di Software Libero: uno sviluppatore di Software Libero che vuole creare una libreria sotto i parametri della licenza GPL dev’essere consapevole del fatto che successivamente gli sviluppatori di software proprietario non possono usarla e quindi la libreria perderebbe gran parte del suo potenziale “commerciale”. Per questo motivo, dopo che molti sviluppatori fecero notare tale difficoltà, la Free Software Foundation decise nel 1991 di stilare una seconda licenza, chiamata LGPL, Library General Public License (ridefinita successivamente Lesser General Public License ed estesa anche ai programmi nel loro complesso).

Sebbene l’utilizzo di una licenza “permissiva”, come l’Apache, è il modo migliore per sostenere una piattaforma di sviluppo software come Android, molti, Free Software Foundation compresa, sostengono che Google ha sacrificato l’occasione per incoraggiare una maggiore trasparenza nel più ampio mercato dei programmi per device mobili. Se Android fosse stato distribuito con licenza GPL, tutti avrebbero dovuto condividere i propri miglioramenti sulla piattaforma di sviluppo, il che avrebbe potuto teoricamente portare alla condivisione diffusa di codice e ad un’accelerazione più rapida dello sviluppo del software.

La licenza Apache è stata quindi scelta da Google più che altro sulla base di logiche commerciali e non per sensibilità verso i diritti degli utenti o, tanto meno, della comunità e della diffusione del Software Libero attraverso il cosidetto “effetto virale” della licenza. Il “business model” che Google ha scelto per Android è senz’altro “open” ma poco orientato al mantenimento perpetuo di tale apertura. Chiunque potrebbe infatti appropriarsi di tutte le componenti di Android rilasciate con licenza Apache (la maggior parte) e “chiuderle” in una licenza proprietaria.

Tra l’altro, al di fuori di Android, non risultano altri prodotti o servizi di cui Google abbia mai reso disponibile il codice sorgente, le specifiche tecniche o il sistema di funzionamento, ovvero, concesso l’utilizzo da parte di terzi. Android è attualmente l’unico prodotto rilasciato da Google con una licenza di Software Libero.

Altre riflessioni appaiono utili ad arginare alcuni pregiudizi. Per esempio, l’inizio della controversia, ovvero, quando e chi ha dato avvio alla contesa con Google. Sun oppure Oracle?

Occorre cioè domandarsi se l’oggetto del contendere tra Oracle e Google non sia emerso già prima dell’acquisizione di Sun da parte di Oracle. Se Oracle ha semplicemente “ereditato” una situazione già creatasi in capo a Sun. Se Sun non ha intentato alcuna azione legale contro Google prima di essere acquisita solo perché in assenza di risorse economiche per affrontare il processo.

Nessuna società, tanto più due big dell’informatica, si rivolgono ad un tribunale prima di aver attuato un tentativo di accordo stragiudiziale. Che ciò sia avvenuto tra Oracle e Google è notizia certa e gli atti del processo lo confermano ma ci sono buone ragioni per credere che le ipotesi di violazione di Google fossero già state sollevate da Sun direttamente e che questa avesse già avviato delle trattative con Google, evidentemente fallite.

Attendiamo quindi di leggere e commentare la sentenza che, con ogni probabilità, sarà emessa entro il prossimo luglio.

Guglielmo Troiano

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