Prove di #networking tra avvocati: tutta questione di copyright

Morena Ragone 05/01/12
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Metti un pomeriggio di inizio inverno, di quelli che scorrono un po’ lenti prima della fine delle feste. Metti che ci si ritrovi, come succede spesso, a leggere più o meno distrattamente le ultime notizie su twitter, tra gli input degli amici e le foto dei festeggiamenti di fine anno.

Metti che improvvisamente qualcuno (@S_A_F), partendo da una notizia ribattuta da @silviasurano, lanci una provocazione indirizzata ad un gruppetto di amici, studiosi della rete e dei suoi fenomeni – @iusreporter, @fpmicozzi, @diritto2punto0, @iusondemand, la stessa @silviasurano e la sottoscritta @morenaragone – e twitti una frase all’apparenza innocua: “Per voi un hashtag può essere soggetto a copyright?”.

Breve inciso, partendo dalla prima notizia, in realtà un po’ datata in quanto di tratta di una decisione dello scorso 18 marzo del Giudice Deborah A. Batts della United States District Court Southern District of New York. La querelle può essere così riassunta: un artista americano di nome Richard Prince – molto conosciuto e quotato nell’ambiente come uno dei principali esponenti, insieme a Sherrei Levine e Barbara Krueger della ‘Appropriation Art‘ – il filone artistico che prevede l’utilizzo di opere d’arte di altri artisti quale base della propria rielaborazione artistica – è stato condannato per plagio per aver utilizzato, nelle sue opere, le fotografie contenute nella collezione ‘Yes, Rasta‘ dell’artista francese Patrick Cariou. Mi astengo, per ovvi motivi, da qualsiasi valutazione artistica, che ciascuno potrà liberamente effettuare semplicemente cercando in rete i nomi dei due artisti coinvolti ed osservandone le opere. Il giudice, verificando che ‘some of the paintings… consist almost entirely of images taken from Yes, Rasta, albeit collaged, enlarged, cropped, tinted, and/or over-painted” e che “the Photos have never been sold or licensed for use other than in the Yes, Rasta book”, dopo una puntuale analisi relativa al caso concreto, non ha ritenuto che ricorresse alcuna delle ipotesi di fair use previste dal Copyright Act, 17 U.S.C. §§ 107 (1)-(4), quale bilanciamento tra il primo emendamento e il copyright, secondo il quale qualsiasi opera è suscettibile di reinterpretazione, qualora da tale reinterpretazione nasca una nuova opera destinata ‘to promote the Progress of Science and useful Arts‘.

Il secondo caso citato – da cui nasce la provocazione di @S_A_F è meno noto: un gentile signore inglese, tale Julian Bray, rivendica la paternità dell’hashtag ‘#uksnow’, ideato durante una situazione climatica particolarmente avversa, e in seguito utilizzato da tale Ben Marsh (“Marsh hijacked it! Ie my intell.prop”, per usare le parole di Bray) per integrare le mappe utilizzate per pianificare i soccorsi. Marsh, pertanto, si sarebbe reso colpevole per aver utilizzato l’hashtag ‘#uksnow’ in violazione del diritto di proprietà intellettuale di Bray e, per di più, senza attribuirgliene la paternità.

L’intera vicenda sembra si sia svolta su twitter; non mi è difficile immaginare, però, che essa possa, prima o poi, approdare nelle aule di qualche Tribunale britannico.

Ma torniamo alla domanda di @S_A_F , molto interessante e ricca di spunti per un ragionamento teorico su alcuni principi cardine del sistema.

Da un punto di vista giuridico, la questione può essere affrontata sotto un duplice aspetto:

può ritenersi che un ‘#’ – generalmente definito come una ‘etichetta‘ costituita da una parola o frase preceduta dal simbolo ‘#’, che consente la classificazione dei tweet – possa integrare un ‘segno distintivo di impresa‘ e come tale essere tutelato ai sensi dell’art. 2598 c.c.?

Può ritenersi che un ‘#’ possieda le caratteristiche richieste dalla L. 633/41, sì da essere considerato una ‘opera dell’ingegno‘?

Ne è nato un dibattito sviluppatosi attraverso circa 95 tweet, e svoltosi nell’arco di diverse ore, a più riprese.

Attenendoci per un attimo al profilo più strettamente giuridico, sulle questioni emerse si sono delineate due tesi: una prima, sulla astratta applicabilità della disciplina prevista per la tutela dei segni distintivi d’impresa anche ad un ‘#’, tesi sulla quale (quasi) tutti siamo stati concordi; una seconda, sulla difficoltà di considerare l’#’ un’opera dell’ingegno, soprattutto nell’ottica della sua tutelabilità.

La prima tesi, oltretutto, potrebbe, a mio avviso, richiamare l’orientamento seguito per l’uso dei ‘meta-tag’ nei siti aziendali in funzione anti-concorrenziale, sui quali si sono già pronunciati numerosi tribunali, in Italia ed all’Estero.

Sul secondo punto, credo sia molto più difficile trovare una possibile strada normativa.

Se l’hashtag è – come in effetti è – una parola o frase preceduta dal simbolo ‘#’, che consente il ‘tracciamento’ di un tweet in modo che l’utente possa seguire le conversazioni che intorno ad esso si sviluppano – può essere considerato un’opera dell’ingegno secondo la nostra legge sul diritto d’autore?

A mio avviso, ad oggi non esiste una norma espressa cui possa essere astrattamente riconducibile l’hashtag come espressione artistica.

Certo, nella pratica dei tribunali il discorso potrebbe essere differente, e non mi stupirei affatto se qualche Court creasse una giurisprudenza del tutto nuova.

Perché in fondo è di questo che si tratta, no?

Qualcosa di nuovo – molto nuovo – che si presenta dinanzi a modelli vecchi di decenni – la nostra legge sul diritto d’autore ad aprile compirà…settant’anni (!) – e che richiederebbe altro: altre leggi, altre competenze, altre abilità, altri processi alla luce di un mondo completamente differente.

Allora sarà interessante vedere come si comporteranno questi tribunali quando questi ed altri interrogativi vi approderanno – perché è solo questione di tempo, ma accadrà.

Al di là del ‘caso’ esaminato, a mio modesto avviso la cosa da rilevare è un’altra: la bellissima prova di networking fatta, in tempo reale, vera testimonianza della capacità connettiva delle nostre menti e dei nostri interessi. L’interazione ha evidenziato pregi e limiti del sistema usato: Twitter è rapido, breve, costringe alla sintesi, a volte crea fraintendimenti o non consente di spiegare appieno il concetto, ma aiuta a creare e cementare quella Rete necessaria per discussioni intense e non dispersive, soprattutto se il caso – come in questo contesto – si dimostra nuovo e stimolante.

Metti, allora che si abbia voglia di riprovare: chi vuol essere dei nostri?

Morena Ragone

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