Alienazione parentale: risarcimento al padre che non riesce a vedere la figlia

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Ricavo da una sentenza del Tribunale  di Roma, del settembre 2011, recentemente pubblicata, la seguente triste vicenda:  un signore, che chiameremo Piero,  si sposa nel  2000, dal matrimonio nasce una figlia. M..

Nel 2002, in costanza di matrimonio, la moglie chiede al tribunale per i minorenni un provvedimento ablativo  della potestà nei suoi confronti e  tale procedimento, non essendo emersi fatti che potessero giustificare l’emissione di una si grave statuizione, si chiude con la declaratoria di non luogo a procedere.

Nel frattempo, doverosamente proposta la separazione, Pietro ottiene  dal presidente del Tribunale ordinario i provvedimenti provvisori,  che sanciscono, tra l’altro, il calendario di visita tra lui e la figlia – in allora di circa due anni-. Naturalmente, la moglie mostra fortissime resistenze a fargli incontrare la bambina .

Il giudice istruttore della causa di separazione incarica quindi i servizi sociali, di riferire in merito alla  condizione psicofisica della minore ed ai suoi rapporti con i due genitori. Nella reazione, depositata nel marzo 2003, i servizi riferiscono che, in effetti, la madre mostra molta resistenza permettere i rapporti   padre e figlia.

Risulta poi dalla sentenza  che a fine agosto del 2005 -da familiarista datata posso immaginare a seguito di un periodo, forse il primo, in cui il padre era riuscito ad avere con se la bambina per più giorni consecutivi-  Piero è stato denunciato dalla moglie, insieme alla propria compagna,  per molestie sessuali sulla figlia (oserei dire seguendo un copione classico ma ormai per fortuna usurato).

Aperto il procedimento penale, dopo una  perizia psicologica ed a seguito di approfondite indagini,  il P.M, nel gennaio 2006, – a questo punto la bambina ha quasi sei anni- chiede l’archiviazione ed il Gip accoglie la richiesta. Naturalmente -e secondo copione- la madre propone opposizione.

Nella sua richiesta di archiviazione il P.M. mette in evidenza le preoccupanti perplessità che gli esiti dell’indagine destano e, in particolare si sofferma sulla inquietante reazione della  madre e della di lei  famiglia  che: “….invece di accogliere lietamente (sia pure con ogni ragionevole cautela) gli esiti processuali, ha ostentato malcelata incredulità nei confronti di dette risultanze … manifestando assoluto disinteresse in ordine alle reali cause che hanno contribuito a determinare il malessere di M.”; osservando ancora che:” se tale atteggiamento può essere giustificato in un’ottica strettamente tecnica e difensiva nessuna giustificazione può essere addotta in relazione al comportamento di chi, con il proprio atteggiamento, ha contribuito a determinare – si auspica inconsapevolmente – la situazione oggi al vaglio del giudice penale, senza assolutamente tenere conto delle conseguenze devastanti che tale atteggiamento potrà in futuro ricadere sull’esistenza di M.”.

Aggiungo che, per l’esperienza di casi analoghi  posso immaginare che, nel frattempo,  le visite padre-figlia siano state nuovamente interrotte o svolte in luogo neutro, confermando indirettamente alla bambina che questo papà ha proprio qualcosa che non va…………..

Riporta poi  la decisione in commento che, ancora due anni dopo l’archiviazione del procedimento penale per supposti abusi sessuali sulla figlia – che a quel momento ha circa otto anni- e pendente il giudizio di separazione (o forse già il divorzio): il Giudice istruttore del procedimento civile, non essendosi sbloccati i rapporti padre figlia neppure dopo al conclusione del procedimento penale per abusi sessuali rivelatisi inesistenti, -in gergo” falsi abusi”,  dispone  nuove verifiche in ordine alla situazione psicofisica della minore visite le relazioni dei servizi sociali che lamentano difficoltà nel mantenere i rapporti padre figlia a causa degli atteggiamenti ostativi della madre, che:”….lungi dall’avere preso coscienza dell’oggettiva situazione di sofferenza psichica in cui versa la minore, persevera nella sua condotta contraria all’interesse della figlia”.

Conclude quindi la sentenza di cui ci occupiamo,  che: “La condotta della madre,  reiterata nel tempo, si sostanzia in una patente e gravissima compromissione dei rapporti affettivi del padre verso la figlia minore, attraverso l’interruzione di ogni apprezzabile relazione per un lungo periodo”  e per tale motivo  condanna la madre di M. a pagare al marito un risarcimento del danno –sub specie di danno esistenziale-, da mancata genitorialità, calcolato in via equitativa di € 50.000.

Nella motivazione della sentenza in commento si legge:” la frequentazione con il figlio era stata frammentaria e discontinua e che per il comportamento della moglie Piero era stato privato del proprio diritto a vivere la sua genitorialità essendo stati dalla donna sempre ostacolati, senza mai dare alcun segno di resipiscenza, i suoi incontri con il figlio”  con la precisazione che: l’interruzione/limitazione dei rapporti genitoriali: “ ….integra, senza alcun dubbio, la lesione del diritto personale  di P. alla genitorialità, diritto costituzionalmente garantito a norma degli artt. 2 e 29 della Cost. avendo comportato nell’uomo, come peraltro evidenziato dagli innumerevoli ricorsi da lui proposti al giudice, una forte sofferenza per non avere potuto assolvere – e non per sua volontà – ai doveri verso la figlia  e per non aver potuto godere della presenza e dell’affetto della piccola”.

Questi i tristi,  ma piuttosto comuni,  fatti -purtroppo i genitori, specie le madri, alienanti, sono molte più di quanto si possa credere-.

In diritto (e senza scendere in questa sede sui criteri della quantificazione del risarcimento) non  si può che plaudere alla liquidazione del danno, sub specie di danno esistenziale, attribuito al padre privato della possibilità di svolgere il suo ruolo genitoriale, ma la domanda fondamentale è un’altra: perché né servizi socio assistenziali,  né il giudice (e forse nemmeno il padre), hanno chiesto/disposto un allontanamento della piccola da questa madre così pericolosa per il suo sviluppo psichico?

Il comportamento della ex moglie di Piero ha tutti i crismi per indurre nella minore una sindrome di alienazione parentale (vedi scale di Gardner)  davanti alla quale, molti psicologi che hanno approfondito il problema  sostengono che,  per tutelare effettivamente il minore coinvolto, sia  indispensabile che i giudici allontanino prontamente i bambini dal genitore alienante.

In questo caso, evidentemente, così non è stato e la piccola dopo quasi dieci anni  è ancora ostaggio di sua madre, con gravissime ripercussioni sul suo sviluppo psichico.

La morale?:forza signori giudici, mostrate un po di coraggio,  non basta liquidare il danno al povero padre privato del suo ruolo se poi lasciamo che la  madre continui nei suoi atteggiamenti alienatori. I  50.000  euro attribuiti  al signor P. sono davvero una beffa se non si libera sua figlia  dalle grinfie di una madre totalmente inadeguata a svolgere il proprio ruolo genitoriale dentro il quale (vedi mio precedente intervento su questa rivista dal titolo “Genitori e figli, l’ipercura e l’iperprotezione sono sanzionabili quali maltrattamenti in famiglia sta anche la capacità di favorire un corretto rapporto con l’altro genitore.

Giulia Facchini

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