Le mansioni e lo ius variandi

Massimo Russo 05/03/11
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Le cose da sapere

La disciplina in materia di mansioni è contenuta nel Codice civile (articolo 2103), ma la loro identificazione ed i criteri di inquadramento dei lavoratori sono stabiliti nella contrattazione collettiva. Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per cui è stato assunto, come indicate nel contratto di lavoro (“contrattualità delle mansioni” viene chiamata).

Al momento dell’assunzione, il datore di lavoro ha l’obbligo di far conoscere al dipendente il suo inquadramento, cioè la categoria e la qualifica che gli vengono assegnate in relazione alle mansioni. Ogni patto contrario in tema di mansioni è nullo. La mancanza di una indicazione chiara delle mansioni, causa di frequenti controversie, rende necessario un procedimento di ricostruzione delle stesse, partendo da quelle effettivamente svolte, in modo stabile, all’interno dell’azienda, a nulla rilevando le caratteristiche professionali del lavoratore.

Il lavoratore può essere adibito allo svolgimento di più mansioni corrispondenti a diversi livelli professionali previsti dal contratto collettivo di lavoro (“promiscue”). In questo caso, la qualifica da attribuire al dipendente deve essere determinata con esclusivo riferimento al contenuto della sua mansione primaria, cioè quella da lui svolta con maggiore frequenza e ripetitività.

Esiste comunque un principio di parità di trattamento tra lavoratori a parità di mansioni espletate, a parte i principi di garanzia del minimo retributivo e di non discriminazione.

Nel corso del rapporto di lavoro le mansioni assegnate possono mutare con il consenso del lavoratore, oppure per decisione unilaterale del datore di lavoro (“ius variandi”). In quest’ultimo caso, le nuove mansioni assegnate al dipendente devono essere equivalenti alle ultime effettivamente svolte (ferma restando la conservazione del precedente livello retributivo) o superiori e, comunque, devono salvaguardare il patrimonio professionale del lavoratore. Per converso, l’adibizione a mansioni inferiori puo’ avvenire soltanto in casi eccezionali, cioe’ con il consenso del dipendente e quale unica alternativa al licenziamento (è il “patto di dequalificazione”).

E’ utile chiarire che sono equivalenti le mansioni che consentono l’utilizzo ed il perfezionamento del bagaglio di nozioni, esperienza e perizia acquisito nella fase precedente del rapporto lavorativo. Il datore di lavoro può inoltre assegnare al dipendente mansioni superiori soltanto per un periodo limitato o in via definitiva.

L’assegnazione a mansioni superiori comporta per il dipendente il diritto a ricevere solo il trattamento economico corrispondente. Se però il lavoratore svolge le mansioni superiori in via continuativa per più di 3 mesi, ha diritto anche al riconoscimento della qualifica superiore corrispondente.

Il lavoratore adibito a mansioni inferiori, rispetto a quelle concordate in sede di assunzione o svolte successivamente, può anche chiedere in giudizio la riammissione nelle precedenti mansioni o in altre di contenuto equivalente – però sempre nel rispetto del legittimo ius variandi del datore di lavoro – nonchè un risarcimento del danno alla professionalità. Danno, ove provato dal lavoratore, che viene liquidato dal giudice in via equitativa, prendendo come parametro una quota della sua retribuzione mensile per ogni mese di accertato demansionamento.

Cosa dice la giurisprudenza

Si è affermata nel tempo una lettura rigorosa dell’art. 2103 c.c., intesa quale norma diretta a bilanciare l’esercizio del potere direttivo da parte del datore di lavoro con la predisposizione di una “tutela degli interessi costituzionalmente rilevanti del prestatore di lavoro (artt. 1, 2, 3, 4, 32, 36, 40 Cost.) e “finalizzata alla tutela della dignità del lavoratore per preservarlo dai danni a quel complesso di capacità e di attitudini che viene definito con il termine di professionalità” (Corte cost. 16 marzo 1989 n. 108; Corte cost. 6 aprile 2004 n. 113; Cass., sez. un., 7 agosto 1998, n. 7755): il giudizio di equivalenza viene collegato alla verifica del mantenimento della posizione tecnico-professionale raggiunta dal lavoratore all’interno dell’organizzazione produttiva.

Si sottolinea la valenza costituzionale del bene della “professionalità” del lavoratore sicché la dequalificazione viene vista come “comportamento discriminatorio” atto a ledere la “dignità sociale del lavoratore” non solo sotto il profilo dei diritti di libertà e di attività sindacale ma anche dei “diritti di libertà finalizzati allo sviluppo della personalità morale e civile” dello stesso (Corte cost. 16 marzo 1989 n. 108; Corte cost. 19 dicembre 2003 n. 359; Cass. 26 maggio 2004 n. 10157; Cass. 23 marzo 2005 n. 6326; Cass. 24 marzo 2006 n. 6572).

La professionalità viene intesa come complesso di attitudini e capacità acquisite dal lavoratore (Cass. 6 giugno 1995 n. 6333; Cass. 17 luglio 1998 n. 7040), sicché l’accertamento dell’equivalenza deve avvenire sulla base del bagaglio di capacità ed esperienza che costituisce il patrimonio professionale del lavoratore.

Le nuove mansioni, infine, per essere ritenute equivalenti, devono essere collocate nel medesimo livello di inquadramento contrattuale o nella stessa area professionale di quelle di provenienza (Cass. 5 aprile 1984 n. 2231; Cass. 4 ottobre 1995 n. 10405; Cass. 1 settembre 2000 n. 11457; Cass. 19 maggio 2001 n. 6856; Cass. 15 febbraio 2003 n. 2328).

Massimo Russo

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