La rivoluzione permanente del pubblico impiego

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Da almeno trent’anni si susseguono leggi che si presentano come la riforma definitiva dei rapporti di pubblico impiego. Chi le propone ci assicura che, dopo, gli uffici funzioneranno finalmente bene, e gli impiegati più efficienti saranno premiati.

Vi siete accorti che sia cambiato qualcosa?

Per i più giovani, facciamo un po’ di storia.

Per un bel po’ di tempo si era andati avanti con il testo unico per gli impiegati dello Stato del 1957.

Era vecchiotto già negli anni ’70 ma si usava, ed era considerato il modello generale dagli enti non statali.

La prima rivoluzione promessa fu la legge 312 del 1980: via le carriere e spazio ai nuovi inquadramenti, chiamati suggestivamente di qualifiche funzionali, dove nel nome c’era già la promessa di un buon “funzionamento”.

A quanto pare non andava bene, tanto che nel 1992 – nel pieno di una crisi finanziaria senza precedenti – tra le riforme drastiche si decise di fare anche quella del pubblico impiego.

Fu la ben nota privatizzazione o contrattualizzazione.

Ricordo un durissimo parere negativo del Consiglio di Stato sullo schema di decreto legislativo, che poi sarebbe stato approvato come 29 del 1993.

Ciò nonostante, la direzione politica era stata imboccata e non si doveva tornare indietro: il privato ci avrebbe salvato, perché avrebbe portato in modo “naturale” efficienza e produttività.

Non ho tenuto il conto di quante volte il decreto 29 sia stato ritoccato, aggiornato, integrato o modificato; ma saranno state decine.

Constatato che non funzionava tanto bene, con il decreto legislativo 80 del 1998 fu promessa la palingenesi; ma anche questo era largamente imperfetto tanto che fu ritoccato qualche mese dopo con il successivo 387 del 1998.

Poi ci sono stati il decreto legislativo 165 del 2001, la legge 145 del 2002 e numerosi piccoli ritocchi, quasi in ogni legge finanziaria o in ogni manovra economica.

Adesso saremmo arrivati al famoso decreto Brunetta, all’anagrafe decreto legislativo 150 del 2009.

Per la verità anche lui ha avuto una vita piuttosto travagliata, per quanto breve, perché è stato modificato più volte nel 2010.

Avendo vissuto questa sorta di rivoluzione permanente e davvero senza fine, sono profondamente scettico sul successo di quest’ultima riforma, per motivi generali e particolari.

In generale, nessuna norma può davvero funzionare, senza l’adesione sincera dei destinatari e di coloro che la devono attuare.

Senza questo, avremo un risultato in cui l’Italia (specie meridionale) ha una lunghissima tradizione: l’ammuina.

E’ l’applicazione puramente formale ed esteriore delle norme, magari con una grande produzione di carte e documenti, ma senza alcun effetto reale sui comportamenti e sulle situazioni.

E nel frattempo, politici e sindacalisti (rappresentanti di “datori di lavoro” e di “lavoratori”), producono le regole reali, vale a dire innumerevoli norme e leggine transitorie, norme e leggine ad personam (“stabilizzazioni” le chiamano adesso).

Il diritto transitorio impera e le riforme non vanno a regime.

Tanto… se le riforme non funzionano … basta produrne di nuove e … si ricomincia!

Dario Sammartino

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