Corte dei conti: l’eccesso di rigore che finisce per violare norme e logica

Luigi Oliveri 14/04/16
Scarica PDF Stampa
Avrebbe dovuto essere un “controllo collaborativo” nei confronti degli enti locali quello di competenza delle sezioni regionali di controllo e della Sezione Autonomie della Corte dei conti.

Il controllo  “collaborativo” o “ausiliario, è quello che si instaura tra controllore esterno ed organo elettivo, destinatario del referto ed ausiliato così nel proprio funzionamento istituzionale[1].

Lo scopo di tale tipologia di controllo consiste, nella lettura data dalla dottrina, in una funzione di aiuto per rimuovere – possibilmente in via preventiva – possibili disfunzioni poste ad ostacolare il buon andamento amministrativo. Il controllo, dunque, dovrebbe indicare azioni per la correzione di gestioni che possano deviare dalla corretta impostazione, sempre nel rispetto delle prerogative decisionali dell’ente ausiliato.

Insomma, trattandosi di una “collaborazione”, sia pure resa in posizione di terzietà da un organo indipendente qual è la Corte dei conti, dovrebbe pervenire al risultato di perseguire fini comuni, lavorando insieme (cum-laborare).

Sempre più, invece, l’azione delle sezioni si sta trasformando in una funzione censoria, interdittiva e latamente sanzionatoria, nel rispetto di un postulato: l’adozione di interpretazioni restrittive sempre e comunque. Col risultato, progressivamente più frequente, di letture delle norme in contrasto con la loro ratio, quando non addirittura in contrasto diretto col loro contenuto, se letto in modo costituzionalmente orientato o nella logica dell’applicabilità della norma per una sua utilitas.

Gli esempi sono moltissimi. Ma, di recente, letture apoditticamente “restrittive” della Corte dei conti si sono poste in contrasto conclamato o molto potenziale, con la Costituzione, mentre si conferma che molte altre forniscono chiavi di lettura delle norme tali da giungere non al risultato di una loro controllata e corretta applicazione, bensì a quello della completa inattuabilità delle norme stesse.

Partiamo dal contrasto conclamato tra pronuncia di “controllo collaborativo” e Costituzione. Nella sentenza 75/2016, la Corte costituzionale, decidendo della costituzionalità dell’articolo 9 della legge 11/2014 della regione autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol Trentino in merito alla disciplina dei diritti di rogito dei segretari comunali, in un inciso fondamentale afferma: “Può aggiungersi che in Trentino-Alto Adige l’applicazione della norma regionale sarebbe bensì estesa anche ai Comuni con segretari dirigenti (12 su 333), ma riconoscerebbe ad essi solo il 75 per cento del diritto di rogito; al contrario, la norma statale si applicherebbe solo ai segretari dei Comuni senza dirigenti (321), tuttavia attribuendo loro l’intero importo del diritto di rogito”.

Dunque, la Consulta ha fornito in modo chiarissimo una lettura dell’articolo 10, comma 2-bis, del d.l. 90/2014, convertito in legge 114/2014 secondo la quale i diritti di rogito spettano ai segretari operanti nelle sedi di segreteria prive di dirigenti, anche se, dunque, in possesso di qualifica equiparata a quella dirigenziale.

La sentenza della Consulta si pone in evidente contrasto con la rilevante giurisprudenza formatasi presso le sezioni regionali di controllo della magistratura contabile, poi sfociata nella delibera 21/2015 della Sezione Autonomie, secondo la quale, al contrario, i diritti di rogito spettano solo ai segretari di fascia C, alla luce di “un’interpretazione rigorosamente incentrata sul dato testuale”, sicchè tale “più rigorosa lettura è, ad avviso della Sezione, condivisibile atteso che la stessa, coerente con il quadro normativo – e contrattuale – regolatore della materia, appare idonea, per un verso, a non frustrare le finalità perequative sottese al comma 2 bis e, per altro, a garantire gli effetti, anche finanziari, avuti in considerazione dal legislatore”.

E’ necessario porsi la domanda se il controllo collaborativo, connotato dalle caratteristiche riassunte sopra, imponga o necessiti letture “rigorose”, piuttosto che indicazioni operative per una corretta applicazione delle norme.

Non è chi non veda come, nel caso di specie (però esemplificativo di moltissimi altri) la lettura “rigorosa” finisce per rendere inapplicabile un istituto, la destinazione parziale dei diritti di rogito ai segretari che operino in enti locali in cui sia presente la dirigenza, invece che segnare la strada per indicare come applicarlo. Certo, la formulazione dell’articolo 10, comma 2-bis, del d.l. 90/2014 è oscura. Ma, l’articolo 36 della Costituzione dovrebbe fornire motivo, quando si tratta della retribuzione dei lavoratori, per limare gli spigoli delle letture “rigorose”.

Un altro esempio di interpretazione eccessivamente restrittiva, sebbene non (ancora) cristallizzato in pronunce giurisdizionali, è dato dalla recente deliberazione della Sezione Autonomie 11/2015, da cui discende che qualsiasi professionista che assuma cariche amministrative politiche negli enti locali, può, laddove chiamato a svolgere la propria attività professionale da un ente locale, svolgerla esclusivamente in modo gratuito, con la sola eccezione dell’attività di revisore dei conti.

La questione affrontata dalla Sezione Autonomie riguarda l’estensione della portata dell’articolo 5, comma 5, del d.l. 78/2010, convertito in legge 122/2010. Guardiamo la chiave di lettura espressa dalla Sezione: “In via generale, pertanto, la locuzione “qualsiasi incarico conferito” contenuta nella norma de qua è da interpretarsi evitando di operare distinzioni non espressamente volute dal legislatore circa la natura dell’incarico medesimo: la circostanza che si tratti di un incarico di natura squisitamente tecnica non si ritiene idonea a mutare l’orientamento giurisprudenziale rigorosamente conforme alla lettera e alla ratio della disposizione normativa in oggetto”.

Come si nota, anche in questo caso v’è un richiamo al “rigore”, quasi elevato a “missione”, tale da far perdere di vista il contenuto collaborativo ma, soprattutto, la circostanza che la funzione consultiva non può e non deve spingersi fino ad incidere i diritti soggettivi.

Nel caso di specie, appare evidente che la lettura “rigorosa” della Sezione pretende di negare il diritto del professionista – previsto dal codice civile e sancito, oltre tutto, dai trattati Ue – di ottenere la giusta ed obbligatoria corresponsione del compenso per l’attività svolta, da un lato. Dall’altro, incide negativamente anche sui diritti costituzionalmente garantiti all’elettorato attivo, ponendosi in contrasto clamoroso con l’articolo 51 della Costituzione ed il postulato dell’articolo 77, comma 1, del d.lgs 267/2000 a mente del quale “La Repubblica tutela il diritto di ogni cittadino chiamato a ricoprire cariche pubbliche nelle amministrazioni degli enti locali ad espletare il mandato”.

L’interpretazione dell’articolo 5, comma 5, del d.l. 78/2010 suggerita dalla Sezione Autonome finisce per negare ai professionisti la compresenza del diritto all’elettorato attivo e del diritto a svolgere liberamente la professione, ponendo detti beni della vita in un’inaccettabile condizione di incompatibilità tra essi. Una lettura costituzionalmente orientata dell’articolo, invece, scevra da messianiche necessità di letture “rigorose” svela con estrema chiarezza come detta incompatibilità non possa che restringersi all’ipotesi in cui l’incarico professionale sia assegnato dall’ente presso il quale il professionista svolga la propria carica politica, allo scopo di evitare conflitti di interesse.

Occorrerà aspettare che qualcuno sollevi la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 5, comma 5, del d.l. 78/2010 se letto come suggerito dalla Sezione Autonome, per dare spazio ad un’interpretazione dagli effetti meno aberranti?

Sta di fatto che la ricerca del rigore ad ogni costo da parte della magistratura contabile non solo contrasta col fine ausiliario del controllo collaborativo, ma, soprattutto, finisce per essere imposto e calato dall’alto, si ribadisce con effetti censori e divaricati rispetto ai fini del controllo.

In particolare, perché il controllo collaborativo non è qualificato dalla legge come attività di amministrazione, visto che è reso da un organo giurisdizionale indipendente. Il controllo è, quindi, qualificato come attività giurisdizionale e finisce per essere assolutamente insindacabile. L’unico “rimedio” (non si può nemmeno parlare di gravame) previsto verso i pareri è dato dalla possibilità che le sezioni regionali, rilevato un contrasto interpretativo, rimettano la questione di massima alla Sezione Autonomie o alle Sezioni Riunite, in modo che queste adottino una pronuncia nomofilattica, tale da vincolare le sezioni regionali al principio affermato.

C’è da osservare che siffatto sistema, se la funzione di controllo scantona dalla collaborazione per l’applicazione della norma verso l’interpetazione d’autorità di natura interdittiva (anche di diritti costituzionalmente tutelati) finisce per non poter più essere considerato conforme all’assetto civile e democratico.

Laddove si dia per assunto che la magistratura contabile nell’esercizio della propria funzione di controllo debba agire sul presupposto della “rigorosità”, quasi sentendosi chiamata ad esercitare una sorta di “funzione d’accusa” sull’azione di amministrazione attiva, allora dovrebbe essere necessario modificare radicalmente la procedura ed introdurre il contraddittorio e strumenti di gravame veri e propri.

Le sezioni decidono inaudita altera parte. Certo, si tratta di collegi, formati da magistrati autorevoli, che decidono in modo ponderato. Ma, l’impostazione rigoristica presuppone che la necessità di un contraddittorio, nel quale consentire all’ente ausiliato di presentare deduzioni ed osservazioni.

Soprattutto, se il controllo dalla collaborazione passa all’interdizione, risulterebbe necessario più che mai attivare sistemi di gravame veri e propri. Torniamo alla delibera 11/2016 della Sezione Autonomie: essa, con tutto il rispetto che merita la Sezione e la Corte dei conti, appare fortemente erronea e frutto di un impeto di rigorismo. Non è possibile, tuttavia, che nell’ordinamento resti questo macigno.

E’ vero che si tratta, in definitiva, di pareri, sicchè gli enti destinatari mantengono comunque tutta la propria potestà decisionale e, dunque, possono discostarvisi. Ma, l’opera di elaborazione di una valutazione autonoma e diversa da quella proposta dalla magistratura contabile (oltre a richiedere una motivazione profondissima e saldissima) presenta rischi formidabili di esposizione ad eventuali responsabilità amministrative, tali da disincentivare l’esercizio della potestà decisionale autonoma. In questo, il controllo da collaborativo si sostanzia in interdittivo. Dunque, c’è il rischio, concretissimo, anzi la concreta certezza, che pronunce discutibili restino a “fare stato”, senza rimedi diretti.

Recentissimo, ancora, è il parere della Sezione regionale di controllo per il Veneto, relativo al margine di applicabilità dell’articolo 4, comma 3, del d.l. 16/2014, convertito in legge 68/2014 e, in particolare, se il requisito soggettivo della violazione del patto di stabilità impedisca radicalmente di utilizzare la “sanatoria” dei fondi delle risorse decentrate, anche se sia avvenuta solo per una delle annualità nelle quali si sia accertata l’irregolare costituzione del fondo. Ancora una volta la visione della magistratura contabile è di tipo interdittivo: “Sul punto, la Sezione ritiene che stante la natura eccezionale della disposizione, la stessa non può che essere interpretata restrittivamente, con conseguente esclusione della possibilità in sede applicativa di ampliare la platea dei possibili destinatari dal punto di vista dell’accertamento dei requisiti oggettivi che il citato comma 3 impone per l’applicazione della “sanatoria””.

In sintesi, pertanto, secondo la Sezione Veneto se un comune, per esempio, abbia verificato l’irregolare costituzione del fondo negli anni 2009, 2010 e 2011, ma abbia violato il patto di stabilità solo nel 2010, non può avvalersi del comma 3 dell’articolo 4 del d.l. 16/2014 in assoluto, per nessuno dei tre anni.

Indubbiamente, la formulazione della norma è atecnica, criptica, mal congegnata: troppe volte, in effetti, l’interpretazione del giudice o di qualsiasi altra autorità è resa ardua, se non impossibile, a causa della qualità scadente delle fonti normative.

Tuttavia, se il faro dell’operazione del controllo “collaborativo” non è il lavorare insieme per risolvere un problema dando una funzione utile alla norma, ma il “rigore” e la “restrittività”, si finisce per esondare verso opzioni ermeneutiche tali da finire di impedire che la norma sia applciata. Il che, rappresenta di per sé segno di un difetto interpretativo: le leggi vanno lette ed interpretate in modo che funzioni, non sì da impedire che svolgano gli effetti che la ratio (condivisibile o meno) di cui sono connotate richiede.

Non vi è dubbio che il “salva-Roma” abbia l’intento di portare a “sanatoria” la costituzione delle risorse.

Nessun dubbio, ancora, vi è sulla circostanza che i comuni definiscano annualmente la costituzione dei fondi, così come annualmente, ne decidano la destinazione, mediante la contrattazione decentrata.

Così stando le cose, poiché si tratta di attività annuali, non si capisce come sia possibile che la violazione del patto di stabilità possa sortire effetti pluriennali.

La chiave di lettura “restrittiva” offerta (per l’ennesima volta) dalla magistratura contabile, finisce per vanificare gli effetti della norma, che risulterebbe del tutto inapplicabile non solo nell’annualità nella quale si è verificata la violazione di uno dei presupposti oggettivi richiesti dall’articolo 4, comma 3, del d.l. 16/2014, ma anche nelle altre annualità nelle quali, invece, il comune sia risultato virtuoso: quasi una spinta al “tanto meglio, tanto peggio” e risultare comunque non virtuosi, soprattutto sapendo bene che la violazione del patto di stabilità è stata sempre in larga parte “indotta” dalle sempre cangianti regole disposte dall’alto, molte volte tali da sorprendere gli enti, porre nel nulla la loro programmazione e rendere impossibile materialmente il rispetto delle regole; un esempio perfetto di ciò è data dall’assurda normativa relativa alle province, foriera di plurime violazioni ai vincoli di finanza pubblica, determinate non da comportamenti non virtuosi, ma dalla sottrazione di 3 miliardi a regime alla loro possibilità di spesa corrente.

Ora, se la costituzione delle risorse decentrate ha valore solo annuale; se il contratto decentrato di parte economica ha efficacia solo annuale; se, quindi, i due atti dispiegano i propri effetti esclusivamente con riferimento all’anno specifico cui sono riferiti, quale sarebbe il meccanismo giuridico-finanziario che estenderebbe ad anni nei quali il comune non ha violato il patto, gli effetti dell’unico anno nel quale il patto sia stato violato? Perché, visto che si tratta di segmenti gestionali, non è possibile ammettere la sanatoria dei fondi e della loro destinazione relativamente agli anni nei quali i presupposti soggettivi si sono manifestati?

La risposta a questa domanda la Sezione Veneto l’ha fornita: perché occorre un’interpretazione restrittiva della norma. Ma, è questo il fine che deve perseguire un controllo “collaborativo”, cioè impedire l’esplicazione piena di un effetto voluto dal legislatore? Il tutto, senza che vi siano udienze in contraddittorio, senza che nessuno possa mai avviare un riesame di una lettura dichiaratamente restrittiva?

Sembra evidente una revisione urgentissima del sistema pensato dall’articolo 7, comma 8, della legge 131/2003. La strada da seguire è permettere un contraddittorio ed un gravame; oppure, trasformare la funzione di controllo da attività giurisdizionale, in attività amministrativa di controllo, soggetta a tutti i possibili gravami amministrativi; o, ancora, modificare radicalmente il sistema, abbandonare la strada ormai accidentata dei controlli collaborativi, troppo spesso snaturati, per approdare ad opzioni diverse: controlli preventivi affidati ad autorità amministrative o indipendenti, ma non giurisdizionali e soggetti a gravami amministrativi.

Certo è che non è possibile ammettere l’incidenza così forte nell’ordinamento di pareri destinati ad avere funzione costitutiva, più che consultiva, fondati su basi eccessivamente rigoristiche, in totale assenza di rimedi posti a limare decisioni, anche quando esse siano palesemente eccessive nella direzione della restrittività.

[1] E. Giardino, “Il controllo collaborativo della corte dei conti sugli enti locali” in www.contabilita-pubblica.it.

Luigi Oliveri

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento