Notizie dall’assedio postmoderno: come Bruxelles risponde al terrorismo

Redazione 24/11/15
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di Damiano De Rosa

Scuole, centri commerciali, uffici, ristoranti, cinema, teatri, supermercati e metro chiusi. Vietato ogni spettacolo pubblico. Carri armati per strada. Allarme 4 su 4, il massimo. Per la prima volta dopo la Seconda Guerra Mondiale. Persone che si interrogano su come fare le cose quotidiane, spesa, mangiare, bere, una birra. I ragazzi moltiplicano i raduni casalinghi, unica possibilità offerta da questa situazione simile alla guerra in quella che dovrebbe essere la capitale dell’istituzione che ha garantito pace negli ultimi 50 anni, l’Unione Europea. Bruxelles sembrava un piccolo miracolo fino a una settimana fa. Un posto incredibilmente integrato, in cui convivevano religioni diversissime, persone provenienti da ovunque, ricchi funzionari e poveri stagiaire, nativi belgi da sempre, con immigrati dal Congo o dal Rwanda.

Personalmente l’ho sempre paragonata a una piccola New York, europea, in piccolo, ma comunque frutto e specchio del melting pot. Qui, ad esempio, la comunità italiana ha una storia e una tradizione. Quando, nel primo dopoguerra, gli italiani venivano qui, per ogni lavoratore nelle miniere, il Belgio dava all’Italia un sacco di carbone. Non è una leggenda. Poi arrivò Marcinelle, il disastro più grande nella storia di questo Paese, un evento che ha mostrato a tutti quanto e di che tipo fosse il contributo della nostra comunità. E da allora le cose sono cambiate per noi. Oggi, a Marcinelle, dove la miniera che scoppiò non c’è più, anche i nativi belgi parlano l’italiano. Ricordano questi ragazzi, che arrivavano senza nulla, ma con una chitarra e la voglia di cantare, di stare insieme, il calore, che queste persone non conoscevano. E del quale si sono innamorati.

L’ex premier belga, Elio di Rupo, è il figlio di uno di questi minatori, abruzzesi, arrivati qua per morire a 60 anni con i polmoni pieni di carbone e dare un futuro ai figli. E che futuro. Gli italiani qui oggi hanno potere e sono rispettati. Per gli altri ancora non è così. Ed è qui che il puzzle della società integrata e multiculturale comincia a disgregarsi. In comuni come Molenbeek (uno dei 19 che federati compongono Bruxelles), diventato tristemente famoso in questi giorni, esiste la voglia di integrazione di molti. Ma molti altri si sentono abbandonati, esclusi, diversi. Ed è qui che lo stato belga non arriva. Prima di tutto con la sua cultura, con forme di dialogo. Permette il formarsi di ghetti, in cui bastano cinque persone fuori di testa per generare l’inferno.

Chi è onesto e vuole una vita migliore a Molenbeek è la vera vittima di tutto questo. Chi vuole uscire dal ghetto è guardato male, con diffidenza, con rabbia. Quando forse la soluzione sarebbe proprio questa: sentirsi parte di qualcosa, non contro. Ma una situazione simile c’è anche in altri comuni, come Anderlecht, quello che un giorno era il refugium peccatorum degli italiani squattrinati. Dunque no, non sono al centro di un grande scontro di civiltà, non mi sembra. Piuttosto sono di fronte alle conseguenze di un misunderstanding: l’integrazione va guidata, pianificata, regolata. Anche se creare i ghetti è a costo zero. La vera sfida è questa. E Spinelli, che l’Unione Europea l’ha immaginata e inventata, lo sapeva. E sapeva che la pace di oggi e di domani passa da qua.

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