Iva, digital economy e rapporti infragruppo

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I gruppi multinazionali che operano nella “Digital economy” sono al centro di una particolare attenzione da parte degli organismi internazionali perchè, in materia Iva, traendo vantaggio dalla disarmonizzazione delle specifiche regole  a livello mondiale sono in grado di strutturare e sfruttare ‘audaci’ schemi commerciali finalizzati ad eludere l’IVA. Questo fenomeno ha raggiunto una dimensione tale che una delle priorità denunciate dall’OCSE nel BEPS Action 1 è proprio la necessità di assicurare l’efficiente riscossione dell’IVA nelle forniture transfrontaliere di beni e servizi legati alla digital economy. La stessa preoccupazione è condivisa anche a livello europeo. Il Gruppo di esperti della Commissione sulla tassazione della digital economy ha evidenziato come l’adeguata applicazione dell’IVA sulle transazioni in parola si pone quale una problematica assai complessa e di difficile soluzione, specie in relazione alle prestazioni di servizi e intangibles.

Il presente articolo è un estratto del volume “Il commercio elettronico – Aspetti giuridici e regime fiscale“, ad opera di Simona Ficola e Benedetto Santacroce, uscito per Maggioli nel luglio 2015.

Laddove, poi, l’imposta dovesse essere correttamente applicata, rimane comunque l’ulteriore questione – avvertita specialmente nei rapporti B2C – data dalla difficoltà della materiale riscossione della medesima e della successiva attribuzione all’erario di competenza.

Pertanto, sul piano dell’IVA il tema della digital economy va gestito avendo riguardo a (almeno) due aspetti: (i) che l’imposizione abbia luogo in capo all’effettivo fruitore della prestazione e che, (ii) una volta fissata la territorialità, la liquidazione e il versamento dell’IVA possano avvenire sulla base di strumenti tecnici affidabili e armonizzati. Tutto ciò, a sua volta, richiede speciale attenzione nel trattamento rapporti infragruppo e la necessità di approntare regole comuni (rectius, condivise a livello internazionale) per l’assolvimento dell’imposta e il disbrigo dei relativi adempimenti.

In generale, sia l’OCSE che l’UE sono dell’avviso che l’imposizione in capo al fruitore di una certa prestazione (questione sub i) sia perseguibile solo attraverso l’implementazione su scala mondiale del principio della tassazione a destinazione (ovvero nel luogo ove si compie l’atto del consumo, cd. destination principle), che costituisce il fulcro delle linee guida dell’OCSE. Tuttavia, allo stato attuale si evidenzia un grado di disarmonizzazione fra Paesi ed aree economiche che non consente di porre in essere concretamente tale principio.

Nei rapporti infragruppo le multinazionali hanno tratto vantaggio della decisione della Corte di giustizia UE nel caso FCE Bank. In tale contesto la Corte ha stabilito che uno un ‘centro di attività stabile’, i.e. una stabile organizzazione ai fini IVA (di seguito SO), ‘che non sia un ente giuridico distinto dalla società di cui fa parte, stabilito in un altro Stato membro e al quale la società fornisce prestazioni di servizi, non dev’essere considerato soggetto passivo in ragione dei costi che gli vengono imputati a fronte di tali prestazioni’. Quindi, a giudizio della Corte, casa madre e SO sono un unico soggetto passivo IVA. Di conseguenza, le reciproche prestazioni di servizi sono fuori dal campo di applicazione dell’imposta. E ciò non solo quando le prestazioni sono poste in essere a livello domestico, ossia nell’ambito della stessa giurisdizione, ma anche quando a carattere transfrontaliero, siccome l’essere stabiliti in stati diversi non inficia il fatto che casa madre e SO sono lo stesso soggetto. La Corte ha deciso il caso dando prevalenza alla forma legale rispetto alla sostanza economica secondo un approccio conforme al principio civilistico della unitarietà soggettiva che vuole la SO priva di personalità giuridica autonoma. Allora, siccome casa madre e SO sono lo stesso soggetto giuridico e considerato che ‘una medesima entità giuridica non [può] che costituire un unico soggetto passivo [IVA]’, la Corte è giunta alla conclusione che nessuna fornitura di servizi rilevante ai fini dell’imposta potesse ravvisarsi in siffatto rapporto infragruppo. Si tratta, come dianzi segnalato, di un risultato frutto dell’applicazione del suddetto principio civilistico della unitarietà soggettiva al campo dell’IVA. Al momento, tale giurisprudenza, che nel caso al centro della FCE Bank ha consentito di preservare la neutralità – siccome ha evitato che la succursale italiana della FCE Bank rimanesse incisa dell’IVA su servizi resi dalla casa madre britannica – rappresenta uno dei maggiori ostacoli all’applicazione del destination principle. Per effetto del principio in oggetto tutte le prestazioni poste in essere nell’ambito di una struttura casa madre-SO sono fuori campo IVA in quanto effettuate nell’ambito dello stesso soggetto passivo (i.e. la casa madre). In quest’ottica, l’adozione di forme di business basate sul rapporto casa madre-SO in sostituzione di strutture basate sul rapporto madre-figlia (dove la figlia è un soggetto giuridico autonomo) è risultata una strategia premiante per i soggetti che non hanno pieno diritto alla detrazione dell’IVA, quali i gruppi bancari e assicurativi. Tali soggetti, laddove attivi sul piano internazionale, hanno sfruttato il varco giuridico aperto dalla FCE bank al fine di utilizzare il modello casa madre-SO per implementare schemi operativi finalizzati all’elusione dell’IVA. Infatti, per gli operatori con vincoli al diritto di detrazione la possibilità di istituire una SO in un Paese dove non esiste un sistema di tassazione dei consumi paragonabile all’IVA ovvero l’imposizione a tale titolo è inferiore a quella del Paese della casa madre, o il poter contare su una SO all’estero con un prorata di detrazione maggiore della madre, può portare indubbi vantaggi in termini di risparmio fiscale e, di riflesso, in termini di competitività sul piano commerciale.

Ad esempio, se una banca stabilita in uno stato membro acquistasse direttamente servizi generici da una società figlia all’estero la casa madre, in qualità di committente, dovrebbe assolvere l’IVA domestica in reverse charge. Di conseguenza, considerata la condizione di indetraibilità che caratterizza i soggetti esercenti attività finanziare per via dell’esenzione delle medesime, la banca rimarrebbe incisa dall’imposta. Diverso (e decisamente più favorevole) è lo scenario laddove il medesimo servizio sia prestato alla casa madre da una propria SO oltreconfine. L’operazione sarebbe fuori campo IVA in forza dell’operare del principio stabilito nella FCE Bank. Il medesimo risultato è ottenibile a parti invertite, ossia quando è la SO che riceve servizi prestati dalla casa madre all’estero.

La descritta situazione è nota a livello internazionale. Sia l’OCSE che la Commissione sono consapevoli dei danni in termini di gettito che da essa derivano. La Commissione ha apertamente ammesso che siffatte forme di ‘canalizzazione’ delle prestazioni attraverso modelli di business basati sul rapporto casa madre-SO aprono una ‘falla’ nel sistema IVA comunitario che porta ad una perdita certa di risorse a danno di tutti gli Stati membri, visto che il gettito impositivo non è incamerato in nessuno di essi. L’OCSE, da parte sua, ha evidenziato come le imprese con limitata detraibilità possono beneficiare di indubbi vantaggi in termini di IVA attraverso il passaggio dei servizi attraverso simili strutture. Di fatto, si tratta di forme di elusione fiscale, elusione che è una delle maggiori cause del cd. VAT gap, ossia la differenza fra l’imposta che dovrebbe essere introitata dagli erari nazionali e quella effettivamente riscossa. La Commissione, in un recente rapporto, ha sottolineato come tale differenziale non sia attribuibile solamente a casi di frode ma anche a forme prima facie legali di elusione.

L’elusione, peraltro, è anche una delle cause maggiori del fenomeno BEPS. Tutto ciò, evidentemente, non collima con l’idea della Commissione secondo cui l’IVA dovrebbe svolgere un ruolo significativo nell’assicurare agli stati un adeguato prelievo fiscale sulle imprese attive nella digital economy. In tale contesto, in sostanza, l’IVA è vista quale un mezzo volto a colmare i limiti riscontrati dalla imposizione diretta nella tassazione degli operatori della digital economy. Sicché, all’IVA è attribuito una funzione cruciale nel ristabilire l’equità fiscale fra operatori economici e nell’assicurare agli stati l’introito delle risorse fiscali di loro spettanza. Tuttavia, il suesposto scenario turba il perseguimento di questo risultato, dato che rende impossibile l’operare del principio della tassazione a destinazione.

Non è chiaro se e come la questione della tassazione delle prestazioni infragruppo verrà affrontato. Certo è che il problema BEPS non potrà dirsi compiutamente risolto finché non si metterà mano alla segnalata problematica. La Commissione, finora, ha manifestato l’opinione che l’attuale impostazione frutto della FCE Bank – per cui i rapporti fra casa madre e SO sono fuori campo IVA – è tollerabile in quanto in linea con il suddetto principio civilistico della unitarietà soggettiva, che è parte della tradizione giuridica degli Stati membri, ed è altresì rispettosa del principio della libertà di stabilimento. In particolare, con riguardo a quest’ultimo aspetto, garantire ‘l’indifferenza’ ai fini dell’IVA delle prestazioni infragruppo anche in uno scenario intracomunitario, i.e. quando casa madre e SO sono stabiliti in due stati membri diversi, fa sì che tale favorevole trattamento consentito a livello domestico non sia inficiato dalla natura transfrontaliera di una operazione. Diversamente, ossia laddove la non tassazione delle operazioni infragruppo fosse circoscritta ad un ambito nazionale, si potrebbe configurare un ostacolo alla libertà di stabilimento, vietato ai sensi del’art. 49 del Trattato di funzionamento dell’UE. La descritta posizione della Commissione, tuttavia, è espressione di una coerenza argomentativa solo apparente. Infatti, i trasferimenti di beni infragruppo in ambito intracomunitario, sin dall’avvento del mercato unico (1993), danno bensì luogo a operazioni rilevanti ai fini IVA, laddove a livello domestico sono ininfluenti. Pertanto, riportare a tassazione le prestazioni infragruppo effettuate in seno al medesimo soggetto giuridico quando poste in essere fra stabilimenti insediati in stati UE diversi, potrebbe essere vista come una misura non solo compatibile con il sistema ma, di più, come idonea a restituire coerenza al medesimo mediante l’equiparazione del trattamento di beni e servizi. In effetti la discrepanza fra cessioni di beni e prestazioni di servizi infragruppo è difficilmente giustificabile sul piano della neutralità e della logica sistematica sui cui si regge la normativa IVA UE. A ben vedere, il regime a cui sono sottoposti i beni, che ignora il principio della unitarietà soggettiva sancito nella FCE Bank, consente la tassazione a destinazione. Al contrario, il regime dei servizi infragruppo, rispettoso di detto principio giurisprudenziale, è ostativo al conseguimento di questo risultato.

 

Benedetto Santacroce

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