La risarcibilità del danno non patrimoniale conseguente alla lesione del diritto di proprietà

Antonio Arseni 15/06/15
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Da tempo dottrina e giurisprudenza si interrogano sulla possibilità di riconoscere il danno non patrimoniale conseguente alla lesione della proprietà, alla stregua di un diritto inviolabile che costituisce  il presupposto per accordare la tutela  risarcitoria in questione.

Come è noto, fino al 2003 il danno non patrimoniale era stato confinato, per così dire, nel  Letto di Procuste dato che la sua risarcibilità era limitata alla sola ipotesi della sussistenza di un reato. Liberato da tale “gabbia”,  imposta dall’art. 2059 CC, secondo il sistema delineato dalla sentenza della Corte Costituzionale 184/1986, che più volte aveva giudicato infondata la questione di illegittimità costituzionale dell’art. 2059 CC “salvando” per molto tempo detta norma, il relativo tema è diventato uno degli argomenti più dibattuti nella giurisprudenza successiva.

Riassuntivamente può dirsi che l’odierno assetto della responsabilità civile si fonda su due arresti giurisprudenziali, rappresentati dalla sentenza della Consulta 233/2003, che a sua volta riprendeva Cassazione 8827 e 8828/2003 e dalle famose sentenze c.d. di “San Martino”, tutte pubblicate 11/11/2008, contrassegnate con i numeri 26972, 26973, 26974 e 26975.

Sulla scorta di dette pronunce, attualmente il danno non patrimoniale è risarcibile, in primo luogo nelle ipotesi previste specificamente dalla legge  (art. 2059 CC), compreso il fatto illecito astrattamente configurabile come reato per effetto del rinvio all’art. 185 CP, per cui la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale derivante da qualsiasi lesione dell’interesse della persona tutelato dall’ordinamento, ancorché privo di rilevanza costituzionale.

Inoltre, il danno non patrimoniale, escluse tali ipotesi, è riconosciuto quando sia leso un diritto inviolabile della persona costituzionalmente qualificato. Si richiede cioè un contra ius costituzionale, assegnandosi poi alla giurisprudenza il compito di individuare nello specifico tale diritto, non catalogato ex ante dal Legislatore.

In questo senso, si esprime  la giurisprudenza consolidata richiamando principi generali ormai pacifici.

Ma quali sono o possono essere i diritti inviolabili della persona, costituzionalmente garantiti  e meritevoli della tutela in questione?

Sul punto la S.C.  (soprattutto) ha fissato dei criteri abbastanza precisi onde evitare, per così dire, una inopportuna proliferazione di domande risarcitorie a tale titolo, di dubbia configurabilità in ordine al relativo presupposto ma che potrebbero indebolire (come è stato ritenuto in dottrina) i diritti inviolabili che esigono la massima protezione.

Orbene, è veramente consistente il numero delle decisioni della Cassazione, a tal proposito, riguardanti posizioni dai chiari contorni e, quindi, meritevoli di tutela in caso di lesione, come, in particolare, i diritti alla integrità psicofisica ed alla salute, all’onore, alla riservatezza, alla reputazione, alla integrità familiare. Ad esse ultimamente se ne è aggiunta altra, che non è retorico definire storica (Cass. 22/01/2014 n° 1361) in quanto nelle oltre cento pagine di motivazione non solo precisa definitivamente la natura composita del danno non patrimoniale, caratterizzato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati di valore di scambio e che si articola in una pluralità di aspetti (o voci) con funzione meramente descrittiva:  1) il danno morale, inteso a) come patema d’animo o sofferenza interiore o perturbamento psichico, b) come lesione alla dignità od integrità morale quale massima espressione della dignità umana; 2) il danno biologico,  3) il danno esistenziale”. Ma  costituisce “danno non patrimoniale anche il danno da perdita della vita, quale bene supremo dell’individuo, oggetto di un diritto assoluto ed inviolabile, garantito in via primaria da parte dell’Ordinamento, anche sul piano della tutela civilistica”. Si tratterebbe di un “danno diverso in ragione del diverso bene tutelato” ossia  connotato di autonomia rispetto la salute, nella sua duplice veste di danno biologico terminale e di danno morale terminale o catastrofico della vittima, rilevando ex sé nella sua oggettività di perdita del principale bene dell’uomo, la vita”. Avendo le varie voci utilizzate dalla giurisprudenza (danno morale, biologico, esistenziale) valore soltanto descrittivo, consegue la impossibilità di una autonoma e separata liquidazione, per evitare il rischio di inammissibili duplicazioni, ma ciò non toglie che essa debba assicurare l’integrale riparazione del torto, in quanto compito irrinunciabile della responsabilità civile è quello di riparare tutto il danno ricollocando la vittima nella stessa situazione in cui si trovava prima della commissione del fatto illecito. Non sono ammessi eccessi di risarcimento ma nemmeno ingiustificate riduzioni sotto il livello della integralità, questo sembra dire la citata sentenza laddove afferma come sia “escluso che il valore della integrità morale possa stimarsi in una quota minore del danno biologico o di potersi fare ricorso a meccanismi semplificativi di tipo automatico”, “potendo anche accadere che al danno alla salute si accompagni quello di altro diritto inviolabile della persona e sia minimale rispetto ad danno alla libertà sessuale, alla libertà personale, all’onore, alla reputazione , etc”.

In questo senso, è all’equità che deve essere fatto riferimento per la quantificazione (e non già per la individuazione) del danno non patrimoniale: quest’ultima va concretamente determinata attraverso un criterio di personalizzazione ragionevole, adeguato e proporzionale, rapportato al caso specifico ed idoneo ad assicurare l’integrale ristoro del danno.

Detto questo, va sottolineata la tendenza della giurisprudenza a subordinare la risarcibilità del danno non patrimoniale derivante dalla lesione dei diritti inviolabili della persona alla presenza delle tre seguenti condizioni:a)l’interesse leso deve avere rilevanza costituzionale; b) la lesione relativa deve essere grave e tale cioè da superare una soglia minima di tollerabilità dettata dal concorrente dovere di solidarietà ex art. 2 Costituzione che impone a ciascuno di sopportare quelle minime intrusioni nella propria sfera personale conseguenti inevitabilmente dalla convivenza ;c) il danno non deve essere futile ossia non consistere in meri disagi o fastidi (così in particolare Cassazione 23/01/2014 n° 1361 citata).

Se questi sono i principi in materia del danno non patrimoniale, occorre domandarci se il diritto di proprietà possa essere annoverato tra i diritti fondamentali della persona costituzionalmente garantiti e come tali meritevoli di una tutela piena, comprensiva della riparazione anche del pregiudizio non patrimoniale.

Orbene,  molti Giudici di merito  ritengono di sì alla luce degli orientamenti recenti della Corte Costituzionale, la quale segnatamente nelle sentenze 348 e 349 del 2007 ha esplicitamente “ riconosciuto come la funzione sociale espressamente attribuita al diritto di proprietà non snaturi la natura del diritto stesso, certamente meritevole di una piena tutela.” Essi, superando le passate incertezze che vedevano nell’art. 42  Cost. non il riconoscimento della rilevanza dell’interesse protetto ma piuttosto un limite dello stesso, hanno ritenuto – nell’ambito di quel’ opera di selezione  degli interessi la cui lesione è da ricondurre alle ipotesi in questione- la risarcibilità del danno non patrimoniale per violazione del diritto di proprietà “ definito dall’art.832 CC come il diritto di godere e di disporre della cosa in modo pieno ed esclusivo e costituzionalmente tutelato dall’art. 42 Cost., rientrante quindi nella categoria dei diritti fondamentali inerenti la persona  quando la lesione è ingiusta ( come il caso deciso dal Tribunale di Firenze 21.1.2011 n.147, in Red. Giuffrè 2011, riguardante ripetute infiltrazioni di acqua nell’appartamento di un soggetto, protrattasi per più di cinque anni, “ intralciando seriamente e fortemente il diritto di questi nel godimento della propria abitazione e, quindi, superando i limiti di quella soglia oltre la quale la offensività del comportamento umano non può essere impedita dalle regole della tolleranza, imposta dai doveri di solidarietà ex art 2 Cost.”).  Sula stessa scia vedasi Tribunale di Palermo 18.6.2010 (in Red. Giuffrè 2010) nonché Tribunale di Brindisi (in Red. Giuffrè 2011) secondo cui “ il mancato godimento sia della proprietà sia sella vita privata e familiare possono comportare il risarcimento del danno non patrimoniale  essendo quest’ultimi espressamente garantiti dalla Carta europea dei diritti dell’uomo e perciò parte integrante dell’Ordinamento Italiano, in virtù del rinvio mobile di cui all’art. 117 Cost.” Alla Cedu viene fatto riferimento  ricordando come detta Carta include il diritto di proprietà  fra quelli  fondamentali della persona umana attraverso una ricostruzione non incompatibile con la nostra Costituzione, come precisato dalla Consulta con la sentenza 349/2007.

In argomento, da ultimo è intervenuto il Tribunale di Vercelli con sentenza 12.02.2015 (in  Diritto Civile Contemporaneo, 2015) che,  aderendo all’interpretazione evolutiva di cui si è detto, anche qui in un caso in cui si discuteva di gravi infiltrazioni di acqua nella proprietà dell’attore, ha riconosciuto  a quest’ultimo il risarcimento del danno patrimoniale e non. E, ciò, sulla base di un percorso argomentativo , per così dire, rafforzato  adducendosi l’art. 42 bis del DPR 327/01 che, nel prevedere il diritto del proprietario ad un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale , in caso di  occupazione acquisitiva, introdurrebbe una disparità  di trattamento tra la lesione della proprietà da parte del soggetto pubblico e la lesione per mano di soggetti privati.

Giunti alla conclusione del presente elaborato, va ricordato l’importante principio, che si trova affermato in più di una sentenza, secondo cui il diritto al risarcimento danni non riveste natura punitiva ma va correlato alla prova del concreto pregiudizio economico asseritamente  subito dal danneggiato. Esso non potrebbe considerarsi in re ipsa nel senso che anche laddove trovi la sua causa  diretta ed immediata nella situazione illegittima posta in essere dalla controparte, la presunzione attiene alla sola possibilità della sussistenza del danno ma non alla sua effettiva esistenza e tanto meno alla sua entità materiale . L’affermazione che il danno sarebbe in re ipsa riguarderebbe, quindi, solo l’an debeatur, che presuppone l’accertamento di un fatto potenzialmente dannoso in  base ad una valutazione anche di probabilità e verosimiglianza secondo l’id quod plerumque accidit, permanendo la necessità della prova,  raggiungibile anche per presunzioni, della esistenza di un  concreto pregiudizio economico ai fini della sua liquidazione, in mancanza della quale  è precluso al giudice accordare la richiesta risarcitorie de qua. In questo senso. uniformemente al decisum di Cass. 11.11.2008 n.26973 (già citata),  è attestata la consolidata giurisprudenza, anche amministrativa, citandosi , a titolo esemplificativo , CDS 22.9.14 n.4781, Tar Lombardia 8.11.2011 n.2673, Cass. 13.12.2012 n.22890, Cass 24.9.2013 n. 21865, Cass. 24.4.2014 n. 9286.

Antonio Arseni

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