La convivenza more uxorio fra vecchi doveri e nuovi diritti. L’azione generale di arricchimento senza causa nell’ambito delle unioni di fatto

Antonio Arseni 23/12/14
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Premesse

La convivenza more uxorio è una condizione che, nei nostri giorni, ormai ha acquisito una certa rilevanza in ragione della prassi consolidata di privilegiare le unioni di fatto, rappresentando esperienze meno impegnative rispetto alla famiglia fondata sul matrimonio per l’appunto.

L’instabilità coniugale è un fenomeno in crescente aumento e che favorisce il diffondersi di forme diverse da quelle tradizionali, come per l’appunto le convivenze senza matrimonio, more uxorio ossia come se due persone fossero marito e moglie senza esserlo per il diritto.

Le cause della crisi del matrimonio sono molteplici, socio politiche, culturali, economiche ed il primo posto spetta soprattutto al c.d. processo di secolarizzazione della società ( ossia alla perdita di influenza sulla vita sociale e pubblica della religione), ai movimenti degli anni intorno al 1970 che hanno messo in discussione l’autoritarismo patriarcale e il modello tradizionale della famiglia e fatto emergere orientamenti rivolti alla affermazione della soggettività individuale e della autorealizzazione, compresa la ricerca della felicità personale di cui ha maggiormente risentito la famiglia.

La stessa partecipazione crescente delle donne al mercato del lavoro, secondo i sociologi, le ha rese indipendenti dagli uomini per la sopravvivenza, costituendo una causa economica della crisi del matrimonio.

Nel campo giuridico, quello dei rapporti familiari di fatto è probabilmente quello che, più di ogni altro, ha impegnato ed impegna la giurisprudenza, la quale ha mostrato, in assenza di una compiuta regolamentazione giuridica, di adeguarsi ai mutamenti del costume sociale, in modo senza dubbio più veloce del legislatore, in attesa di una difficile composizione delle varie istanze delle forze politiche che possa dar luogo ad una condivisa disciplina giuridica (più di un disegno di legge giace in Parlamento). Nel frattempo è proprio la giurisprudenza, attraverso una lettura costituzionalmente orientata del fenomeno, a dettare dei principi importanti ed utili per assicurare forme di tutela a tali rapporti interpersonali.

Ed, invero, per effetto della copertura costituzionale dell’art. 2 Cost., la famiglia di fatto viene vista come una formazione sociale meritevole di tutela, seppur in maniera diversa dalla famiglia fondata sul matrimonio, che possiede una “superiore dignità in ragione dei caratteri di stabilità e certezza e della reciprocità e corrispettività di diritti e doveri che nascono solo dal matrimonio” (Corte Cost. 1989/310).

Parte della dottrina (F. Roppo Voce Famiglia, in Enciclopedia Giuridica 1999, pag. 31, pag. 2) afferma che per la convivenza more uxorio non può parlarsi di “famiglia di fatto” essendo la famiglia il prodotto dell’unione matrimoniale e non altro

La convivenza more uxorio configura una obbligazione naturale

.Al di là della terminologia, comunque, vi è un aspetto fondamentale da sottolineare e cioè che nelle unioni di fatto non sono presenti i vincoli tipici che derivano dal matrimonio, dovendo essi piuttosto individuarsi (come si esprime la Cassazione), per effetto del rilievo costituzionale di cui al cennato art. 2 della Costituzione, “in quei doveri di solidarietà ed assistenza reciproca, caratterizzati da una dimensione morale, soprattutto nella loro fase dinamica, non ripetibili e non coercibile secondo la disciplina delle obbligazioni naturali”.

È questa la prima importante conclusione che si deve evidenziare, alla luce di una copiosa giurisprudenza di legittimità e di merito che vede, per l’appunto, nei doveri di assistenza, che i membri della coppia di fatto si prestano, trovare la loro fonte: non in un vero e proprio obbligo giuridico come nel matrimonio ma in quella particolare obbligazione disciplinata dall’art. 2034 cod. civ. Tra l’altro l’art 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, spesso richiamato dai Giudici di legittimità, tutela il diritto alla vita familiare, ove la famiglia non è limitata alle relazioni basate sul matrimonio ma ricomprende anche quelle che si sviluppano al di fuori del rapporto di coniugio vero e proprio.

Ed, invero, più volte la Suprema Corte ha affermato che “sussistendo tra i conviventi more uxorio, una famiglia di fatto, tutte le prestazioni reciprocamente eseguite nell’ambito di tale rapporto, hanno natura di obbligazioni naturali, con conseguente irripetibilità di quanto dato e prestato reciprocamente (cfr. Cass. 2003/3713; Trib. Bologna 2006/284; Cass. 2009/11330 e da ultimo Cass. 2014/1277).

Tutele riconosciute alle unioni di fatto

Prima di esaminare le eccezioni o correttivi al principio testé ricordato, è bene rammentare che il ruolo della convivenza more uxorio, pur non potendo essere equiparato, in difetto di espressa regolamentazione legislativa, alla famiglia legittima come detto, è stato riconosciuto meritevole di considerazione, proprio perché formazione sociale idonea a favorire l’evoluzione della personalità del singolo e della coppia, in alcune situazioni che hanno finito per riconoscerne l’importanza sul piano di alcune conseguenze di natura giuridica.

Vogliamo riferirci, in questo senso, a tutti quei casi in cui sono state oggetto di tutela posizioni soggettive proprio derivanti dalla convivenza more uxorio.

Senza pretesa di essere esaustivi, possono farsi alcuni esempi, i più considerevoli, per dire come la giurisprudenza ha mostrato una certa sensibilità per il fenomeno.

In tema di responsabilità extracontrattuale

Così, è stato affermato, soprattutto nel campo della responsabilità extracontrattuale, che il diritto al risarcimento del danno da fatto illecito, sostanziatosi in un evento mortale, va riconosciuto anche al convivente more uxorio, sia con riferimento al danno morale sia con riferimento a quello patrimoniale purché (e questa è la condizione indispensabile su cui si basa l’affermazione) risulti provata, da parte di chi invoca detto riconoscimento, l’esistenza di una relazione duratura e stabile con caratteri di mutua assistenza morale e materiale.

In questo senso, vedasi Cass. 16.09.2008 n. 23725 e, sullo stesso solco tracciato da detta pronuncia, anche Cass. 07.06.2011 n. 12278, Cass. 21.03.2013 n. 7128 e da ultimo Cass. 16.06.14 n. 13654.

Mette conto di rilevare, a tal riguardo, che il tema della risarcibilità del danno da morte del convivente more uxorio ha suscitato non pochi contrasti in giurisprudenza, prima della anzidette decisioni che ne hanno consacrato la dignità giuridica.

Ed, infatti, ad un indirizzo favorevole, manifestato soprattutto da Cass. 29.04.2005 n. 8976, è stata opposta una opinione contraria, risalente agli anni ‘90 che di recente è divenuta minoritaria, secondo cui il convivente more uxorio sarebbe carente di legittimazione ad agire per il risarcimento dei danni derivanti dall’uccisione della persona con cui conviveva, salvo la dimostrazione che il fatto illecito abbia leso un suo diritto, scaturente dalla legge o da patto nei confronti della persona offesa dal reato.

Ed, infatti, detta opinione si fondava sull’assunto che il danno risarcibile è solo quello derivante da lesione di un diritto e siccome, in caso di morte di una persona, il suo convivente, che riceveva vantaggi e prestazioni, non avrebbe per legge alcun diritto ad essi, se ne deduceva il difetto di legitimatio ad causam per il risarcimento dei danni patiti in ragione della morte del proprio compagno.

Ma come visto, la prospettiva è mutata, per effetto di una lettura costituzionalmente orientata dei principi applicabili nello specifico settore, segnalandosi, al riguardo, quanto affermato dalla pronuncia della S.C. citata (Cass. 2013/7128) secondo cui “integra di per sé un danno risarcibile ex art. 2059 c.c., giacché lede un interesse della persona costituzionalmente rilevante, ai sensi dell’art. 2 Cost. il pregiudizio recato al rapporto di convivenza, da intendere quale stabile legame tra due persone connotato da duratura e significativa comunanza di vita e di affetti, anche quando non sia contraddistinto da coabitazione”.

Notasi come il S.C., attraverso la sentenza appena citata, abbia fatto un passo ulteriore affermando a chiare lettere che ai fini del risarcimento del danno (nella specie non patrimoniale) quello che conta è la serietà e stabilità della relazione affettiva non anche la convivenza.

La conclusione cui perviene la Cassazione passa attraverso la considerazione dell’art. 2 della Cost. che attribuisce rilevanza costituzionale alla sfera relazionale della persona in quanto tale.

In tale contesto, di particolare interesse, per la novità della questione, appare la decisione della Corte di Appello di Milano 20.11.2012 n. 6836 (in Responsabilità Civile e Previdenza, fasc.2,2014, p.645), intervenuta in un caso di convivenza tra persone dello stesso sesso, confermando il diritto del convivente al risarcimento del danno a causa della perdita del partner in un incidente stradale, precisando “che non si tratta di equiparare o assimilare la convivenza in questione alla famiglia ma solo di riconoscere al singolo individuo, superstite di una precedente formazione sociale caratterizzata da coabitazione ed affetto reciproco, il diritto ad un equo ristoro della sofferenza subita a causa di un fatto, previsto come reato, che ha leso irrimediabilmente il suo diritto a svolgere la sua personalità in tale formazione”.

Anche nella giurisprudenza di merito tale indirizzo ha trovato favorevole riscontro diventando maggioritario (v. ex multis Tribunale di Roma 09/07/1991, Tribunale di Roma 18/09/2006 e 17/04/2005; Tribunale di Milano 21/02/2007 e 14/01/2009; Tribunale di Bologna 14/04/2010; Tribunale di Bari 06/09/2012; Tribunale di Verona 30/09/2013).

In materia di illecito endofamiliare

Un altro settore ove la Giurisprudenza ha particolarmente mostrato di adeguarsi al cambiamento dei costumi sociali è senza dubbio quello rappresentato da tutte quelle fattispecie in cui vengono in considerazione gli obblighi nascenti dal matrimonio, quali la fedeltà, la coabitazione e l’assistenza morale e materiale, la cui violazione comporta quello che è stato definito un ILLECITO ENDOFAMILIARE, a cui consegue il risarcimento del danno. Una misura questa che ha trovato spazio per la riscontrata insufficienza delle cd. sanzioni alternative, quali ad esempio l’addebito della separazione, peraltro di non agevole applicazione per la stessa difficoltà della prova dei relativi presupposti, dovendosi riportare all’inizio della crisi il comportamento lesivo sulla base della considerazione che il singolo fatto (ad esempio infedeltà) deve essere la causa del fallimento del rapporto coniugale e non la conseguenza.

In questo senso, importante è il distinguo tra addebito della separazione e risarcimento da illecito endofamiliare che rappresentano due misure, per così dire sanzionatorie, che l’Ordinamento apporterebbe per tutelare il coniuge che subisce il comportamento non corretto dell’altro : laddove la prima sanzionerebbe l’inadempienza nell’ambito del matrimonio, la seconda sarebbe diretta a risarcire il pregiudizio subito dall’altro coniuge che assuma la lesione di un diritto costituzionalmente garantito a causa della violazione suddetta.

Tale principio si trova affermato a partire dalla sentenza della Cassazione 10/05/2005 n.9801, ove si chiarisce che “la lesione di un diritto inviolabile della persona costituisce presupposto logico della responsabilità civile, provenga essa da un terzo o da un comportamento del proprio nucleo familiare”.

Non è questa la sede per ripercorrere lo svilupparsi del dibattito giurisprudenziale e dottrinale che ha portato al riconoscimento dell’illecito endofamiliare, evidenziato molto timidamente a partire da Cass. 29/05/1995 n. 5866, fatto sta che oggi la giurisprudenza, recependo la lacuna interpretativa generata dal convincimento che l’inadempimento di uno dei coniugi potesse trovare la sua sanzione solo “in ambito familiare”, con conseguente esclusione della configurabilità dell’illecito civile risarcibile, attraverso dei passaggi significativi (v. ad esempio Tribunale di Firenze 13/06/2000 in Fam. Dir. 2001, 161; Tribunale di Milano 04/06/2002 in Giur. It. 2002, 2290), è pervenuta alla elaborazione dell’illecito endofamiliare “inteso quale danno esistenziale conseguente alla lesione di un diritto costituzionalmente garantito, che va ad incidere sulla condotta di vita della persona e che si sussume alla categoria delle ripercussioni relazionali di segno negativo” (così in dottrina, Spangaro, La responsabilità in violazione dei doveri coniugali).

Si può dire, quindi, che oggi la risarcibilità dell’illecito endofamiliare, caratterizzato dalla violazione degli obblighi coniugali, attraverso un comportamento che trascende in atteggiamenti tali da attentare ai diritti fondamentali della persona, offendendo gravemente la dignità ed il decoro dell’altro coniuge, con effetti negativi sulla vita di relazione di quest’ultimo, ha trovato definitiva considerazione.

Il campo di applicazione di detti principi è rappresentato soprattutto dalla violazione dell’obbligo della fedeltà, essendo la casistica molto ampia, ricordandosi anche e doverosamente che l’addebito della separazione non è pregiudiziale all’azione di risarcimento in quanto il relativo presupposto logico è le ingiusta lesione di un diritto costituzionalmente protetto(Cass. 17/01/2012 n. 610).

Detto questo, va sottolineato che la giurisprudenza anche in questo settore si è spinta in avanti ampliando la portata applicativa dell’illecito endofamiliare, riconoscendo il risarcimento danni anche in ipotesi di convivenza more uxorio duratura e stabile, in coerenza con quei principi suddetti, principi che riconoscono alla c.d. famiglia di fatto la dignità di formazione sociale ai sensi dell’art. 2 Cost.

In questo senso vedasi Cass. 20/06/2013 n. 15481 che per così dire ha “aperto la breccia” in un muro che in passato era stato elevato per escludere il risarcimento danni causati dalla violazione degli obblighi familiari da parte del convivente, esaminando una fattispecie in cui si doveva decidere – ai fini della ammissibilità della richiesta di una donna di poter beneficare del patrocinio a spese dello Stato, nella causa da intentare all’ex convivente per ottenere il risarcimento del danno per violazione degli obblighi familiari- la “sussumibilità di tale posizione nell’ambito della categoria dei diritti fondamentali della persona, senza che assuma rilievo il tipo di unione al cui interno la lamentata lesione si sarebbe verificata”.

Con ciò, riconoscendo cha la violazione di diritti fondamentali della persona è configurabile anche all’interno di una unione di fatto che, come più volte detto, abbia caratteristiche di stabilità e serietà, avuto riguardo alla irrinunciabilità di tali diritti, riconosciuti ex art. 2 Cost. in tutte le formazioni in cui si svolge la personalità dell’individuo (così Cass. 2012/4184).

In tema di revisione dell’assegno di divorzio

Continuando nella disamina del ruolo riconosciuto alla convivenza more uxorio, connotata dei caratteri sopra ricordati e per l’effetto idonea a determinare peculiari conseguenze di natura giuridica, vanno ricordate le numerose pronunce del S.C,. intervenute in materia di riconoscimento dell’assegno di divorzio tra cui quella particolarmente significativa rappresentata da Cass. 11/08/2011 n. 17195 (cui sono seguite due altre del tutto conformi 12/03/2012 n. 3923 e 26/02/2014 n. 4539) ove a chiare lettere è stato affermato che la c.d. “famiglia di fatto, ossia quella caratterizzata da un rapporto stabile e duraturo, portatrice di valori di stretta solidarietà, di arricchimento e di sviluppo della personalità di ogni componente e, come tale, meritevole  di garanzia costituzionale, ancorché indirettamente, quale fenomeno sociale in cui si svolge la personalità dell’individuo, ai sensi dell’art. 2 Cost., altera e rescinde (N.B.) la relazione con il tenore ed il modello di vita caratterizzato dalla pregressa convivenza matrimoniale e così il rapporto per il riconoscimento dell’assegno divorzile”.

La convivenza more uxorio da fatto sopravvenuto irrilevante ai fini della revisione dell’assegno ex art. 9 L898/70 (v. Cass. 24/04/2001 n. 6017), diventa, alla luce di una rivisitazione dell’istituto, circostanza idonea in senso contrario, assumendo la coppia di fatto la capacità di annullare il diritto all’assegno a carico dell’ex coniuge divorziato e nei confronti del beneficiario che ha avviato una relazione di tale tipo, purché duratura e stabile (N.B. concetto ricorrente nelle pronunce giurisprudenziali), in questi termini giudizialmente accertata. E ciò fin quando la questione non possa riproporsi in caso di rottura della convivenza more uxorio, sostanziandosi l’esonero del pagamento, da parte del soggetto obbligato, in una ipotesi di quiescenza del diritto all’assegno post-matrimoniale.

Ed ancora, un campo particolarmente fecondo ove ha inciso la convivenza more uxorio è quello dei diritti derivanti al componente della coppia di fatto che abbia destinato un immobile di proprietà dell’altro ad abitazione “familiare”.

Ebbene è stato più volte precisato che la convivenza more uxorio determina un potere di fatto sulla cosa di abitazione basato “su un interesse ben diverso di quello derivante da ragioni di ospitalità tale da assumere i connotati tipici di una detenzione giustificata che ha titolo in un negozio giuridico di tipo familiare….con la conseguenza che la estromissione violenta e clandestina compiuta dal convivente proprietario in danno del convivente non proprietario, legittima quest’ultimo alla tutela possessoria, consentendogli di esperire l’azione di spoglio (Cass. 21/03/2013 n. 7214; Tribunale di Milano 18/02/2014).

Ma vi è di più.

Tale tutela, infatti, è stata riconosciuta al convivente anche laddove l’autore dello spoglio sia un terzo che abbia commesso l’azione lesiva nei confronti della coppia (Cass. 02/01/2014 n. 7).

È utile ricordare che sulla questione del potere di fatto esercitato dal convivente more uxorio si è previsto che nella stabile convivenza non può cogliersi, tuttavia, una posizione idonea a condurre alla acquisizione di un possesso ad usucapionem atteggiandosi la stessa in termini di detentio a tal fine irrilevante (Cass 14/06/2012 n. 9789).

Perplessità sono state avanzate dalla dottrina, tuttavia, in merito alla possibilità del convivente, qualificato detentore del bene, all’esercizio dell’azione possessoria laddove sia cessata la relazione affettiva tra la coppia di fatto, in quanto verrebbe meno il presupposto stesso che abilitava il convivente, professandosi per questo detentore qualificato, a pretendere di essere ammesso nella disponibilità del bene.

In tema di subentro nel contratto di locazioone

Così a seguito della sentenza della Corte Costituzionale 07/04/1988 n. 4 in riferimento all’art. 6 comma 1 Legge 1978/392 è un dato acquisito che possono subentrare nel contratto di locazione in caso di morte del conduttore il convivente more uxorio di quest’ultimo o, in caso di allontanamento del primo, allorché con il convivente stesso rimanga nell’immobile locato anche la prole (Cass. 10/10/1997 n. 9868).

In tema di Impresa familiare

Alla famiglia di fatto sarebbe applicabile l’istituto giuridico dell’impresa familiare (art. 230 bis C.C.) sulla base di una recente decisione della Cassazione (15/03/2006 n. 5632) dopo che in fondo si era opinato in senso contrario (Cass. 02/05/1994 n. 4204) in ragione della considerazione (superata) che l’elemento salente dell’impresa familiare e la famiglia legittima, individuata tra i più stretti congiunti mentre la convivenza è una situazione di fatto caratterizzata dalla precarietà e dalla revocabilità ad nutum. Infatti, si considera impresa familiare l’impresa nella quale collaborano, anche attraverso il lavoro nella famiglia, il coniuge, i parenti entro il 3° grado, gli affini entro il 2° grado dell’imprenditore.

Va rammentato però che l’istituto giuridico in questione ha natura suppletiva, poiché diretto ad apprestare una tutela minima ed inderogabile a quei rapporti di lavoro che si svolgono in ambito familiare di talchè non può ravvisarsi quando sia configurabile altro tipo di rapporto come ed esempio quello subordinato (Cass. 09/08/1997 n. 7438) o associazione in partecipazione.

Una recente sentenza della Cassazione del 06/11/2014 n. 23676 ha risolto un contrasto presente in giurisprudenza reputando l’impresa familiare incompatibile con un regime societario in ragione della eccezionalità (e, quindi, non estensibile analogicamente) della norma che la disciplina e delle peculiarità che la contraddistinguono riferite alla fase di distribuzione degli utili ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi della azienda, anche in ordine all’avviamento in proporzione della quantità e qualità del lavoro prestato.

Sulla questione occorre fare una breve riflessione essendoci l’occasione fornita dal fatto che un sempre più crescente numero di soggetti, delusi da una convivenza more uxorio cessata per il venir meno del c.d. collante affettivo, cercano di lucrare vantaggi economici deducendo lo svolgimento di un rapporto di lavoro subordinato, quando invece la comunanza di vita e di interessi tra conviventi lo escluderebbe, rendendo inconciliabile la pretesa dell’asserita esistenza di quel rapporto, motivato da ragioni che nulla hanno a che fare con lo stesso.

Le ipotesi dei c.d. diritti negati

Non sempre però le unioni di fatto comportano il riconoscimento di diritti al pari della famiglia legittima.

Il settore che maggiormente risente di detta assenza è quello del diritto successorio in quanto la convivenza more uxorio, quale tiolo di vocazione legittima all’eredità, contrasterebbe con la relativa disciplina giuridica la quale esige che le categorie dei successibili siano individuate sulla base di rapporti incontestabili e sicuri (coniuge, parentela legittima, adozione, filiazione).

La dottrina e la giurisprudenza, al riguardo, hanno invero precisato che la tutela delle formazioni sociali in cui si sviluppa la persona umana (art. 2), riferibile come visto anche alle convivenze di fatto, purché caratterizzate da un grado di stabilità, non implica la garanzia dei conviventi del diritto reciproco di successione mortis causa, considerato il dato non indifferente che esso non può atteggiarsi alla stregua di un diritto inviolabile dell’uomo, come tale” presidiato dal citato art. 2 della Costituzione.

La categoria dei successibili è determinata dal legislatore sulla base di una scelta lasciata alla sua discrezionalità (ex art. 42, 4 co. Cost.) per cui allo stato esiste una equiparazione solo tra figli naturali e legittimi nei rapporti con i genitori che li hanno riconosciuti o nei confronti dei quali la filiazione è stata dichiarata; equiparazione resa possibile dalla direttiva di cui all’art. 30, Cost..

Ciò non toglie che nell’ambito della c.d. famiglia di fatto il godimento di diritti successori possa essere assicurato attraverso una disposizione testamentaria, che pur tuttavia deve “fare i conti” con la normativa (art. 536 e segg. c.c.) che garantisce l’intangibilità delle quote riservate ai c.d. legittimi.

Al convivente more uxorio non si applica sicuramente la disposizione dell’art. 540, 2° comma c.c. che riserva a favore del coniuge legittimo, anche quando concorre con altri chiamati, alle condizioni ivi previste, il diritto di abitazione della casa adibita a residenza familiare e di uso dei mobili che la corredano se di proprietà del defunto o comuni. L’esclusione è stata anche chiarita da una risalente sentenza della Corte Costituzionale del 26/05/1898 n. 310. Sul punto va ricordata la interessante pronuncia del Tribunale di Milano del 08/09/1997 (in Arch. Loc. 1998 n 88), il quale ragionevolmente ha reputato che alla morte del convivente more uxorio, proprietario dell’appartamento adibito ad alloggio familiare insieme al partner, gli eredi del primo possano richiedere a quest’ultimo il risarcimento danni da occupazione illegittima solo dal momento della relativa richiesta.

Le stesse motivazioni che escludono la possibilità dei componenti della famiglia di fatto di vantare diritti successori si trovano affermate in materia di alimenti ex art. 433 C.C..

Il convivente more uxorio non ha diritto agli stessi né tantomeno al mantenimento dato che la convivenza sostanzia una unione di fatto, caratterizzata dalla precarietà e dalla revocabilità unilaterale cui non si ricollegano diritti e doveri se non di carattere morale (cfr Tribunale di Napoli 08/07/1989).

Al contrario, la richiesta di contributo per il mantenimento del figlio è fondata sull’obbligo dei genitori di mantenere i figli per il solo fatto di averli generati e tale obbligo è stato di recente “positivizzato” normativamente con la L. 10/12/2012 n. 219 e con il Dlgs 2013 n. 14, che hanno profondamente mutato la disciplina relativa alla filiazione sancendo ed attuando, rispettivamente, il principio della unificazione dello status di figlio sia questi nato “nel” o “fuori del” matrimonio (v. C.M. Bianca la Riforma del diritto di filiazione, in Nuove leggi civ. comm., 2013,437).

Anche la comunione degli acquisti non può ritenersi applicabile alla convivenza more uxorio (v. ex multis Tribunale Pisa 20/01/1988, Corte di Appello di Firenze 12/02/1991, Tribunale di Palermo 03/09/2000) dato le sue caratteristiche, con la conseguenza che i beni rimangono nella esclusiva titolarità di chi li ha acquistati salvo la ipotesi in cui i conviventi abbiano deciso di rendersi congiuntamente acquirenti.

Considerazioni conclusive e condizioni per la ripetibilità di quanto dato dal convivente more uxorio

Questo, per così dire, lo “stato dell’arte” delle unioni di fatto in attesa di una loro disciplina organica ad opera le legislatore, il quale, da un decennio a questa parte, ha fatto “qualche passo” in tale direzione come nel caso della citata in tema di filiazione o come le leggi 04/04/2001 n. 154 (in tema di estensione al convivente degli ordini di protezione contro gli abusi familiari), 28/03/2001 n. 149 (in tema di stabilità della coppia di adottanti), 09/01/2004 n. 6 (in tema di legittimità anche del convivente ai fini della amministrazione di sostegno, interdizione ed inabilitazione), 19/02/2004 n. 40 (in tema di fecondazione assistita per le coppie di fatto), 08/02/2006 n. 54 in tema di affido condiviso per i figli di genitori non coniugati.

Riprendendo le fila del discorso interrotto in merito ai doveri derivanti da una unione di fatto -priva di una organica disciplina ma dotata di significative analogie con la famiglia formatasi nell’ambito di un legame matrimoniale per la convivenza di vita fondata sull’affectio, che la rende una formazione sociale meritevole di tutela costituzionale (art. 2)-, v’è da dire che tali doveri, scaturenti soprattutto nella fase dinamica, si caratterizzano in prestazioni di natura morale e sociale che i conviventi si scambiano vicendevolmente, anche sotto forma di elargizioni in denaro.

Inizialmente tali prestazioni erano considerate donazioni remuneratorie (v. Cass. 07/10/1954 n. 3389) per assurgere poi, in un secondo tempo, ad obbligazioni naturali viste in chiave di adempimento dei doveri naturali di assistenza aventi un contenuto analogo a quelli posti a carico del coniuge ex art. 143 cc.

La configurazione di tali doveri, alla stregua di una obbligazione naturale ex art. 2034 C.C. (è questo l’assetto definitivo cui è pervenuta attualmente la giurisprudenza), comporta la non ripetibilità delle eseguite prestazioni patrimoniali a favore dell’altro convivente. Particolarmente incisiva in questo senso la sentenza della Cassazione 22/01/2014 n. 1277, secondo la quale “eventuali contribuzioni di un convivente nei confronti dell’altro vanno intese come adempimenti che la coscienza sociale ritiene doverosi nell’ambito di un consolidato rapporto affettivo che non può non implicare – pur senza la cogenza giuridica di cui all’art. 143 C.C., comma 2, C.C.- una forma di collaborazione, di assistenza morale e materiale dell’altro.

L’interrogativo che spesso si pone, al riguardo, è se esista un limite od un correttivo, se l’obbligazione naturale comprende tutte le dazioni di un convivente a favore dell’altro.

Orbene, giustamente la Cassazione, a partire soprattutto dalla esplicita sentenza 13.3.2003 n.2713, ritiene che la ripetibilità di una attribuzione economica debba essere valutata, caso per caso, in termini di proporzionalità rispetto le condizioni patrimoniali e sociali del solvens (da ultimo v. Cass. 22.1.2014 n. 1277),. In questo senso, sarebbe possibile l’azione di arricchimento senza causa, anche nella ipotesi non consentita dell’adempimento di una obbligazione naturale, allorchè la locupletazione di un soggetto a danno dell’altro, presupposto per l’applicazione dell’art. 2041 C.C., possa rivelare l’ingiustizia dell’arricchimento del convivente more uxorio, come nel caso in cui siano state effettuate “prestazioni a vantaggio di questi esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza -il cui contenuto va parametrato sulle condizioni sociali e patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto- e travalicanti i limiti di proporzionalità ed adeguatezza” (v. Cass. 15/05/2009 n. 11330).

L’arricchimento senza causa ex art. 2041 C.C. costituisce una norma di chiusura, che oltre uno strumento di tutela esperibile in tutti i casi in cui tra due conviventi si verifica uno spostamento patrimoniale tale che uno subisca un danno e l’altro si arricchisca senza una giusta causa e cioè senza che sussista una ragione che secondo il nostro ordinamento giustifichi il profitto o il vantaggio dell’arricchito.

E’ bene ricordare, per concludere, che l’azione ex art. 2041 c.c. si prescrive nel termine ordinario decennale, decorrente dalla cessazione del rapporto di convivenza (v. Cass.15.5.2009 n. 11330)

Antonio Arseni

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