Stupefacenti, rideterminazione della pena dopo la sentenza della Consulta

Redazione 17/11/14
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Come noto, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 32 del 2014, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 4-bis e 4-vicies ter, del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272 mentre il decreto legge n. 36 del 2014, così come convertito, con modificazioni, nella legge n. 79 del 2014, ha riformulato le tabelle concernenti l’indicazione delle sostanze stupefacenti e psicotrope e relative preparazioni.

 

Il presente articolo è firmato dall’avvocato Antonio Di Tullio D’Elisiis, autore del volume “Nuova disciplina degli stupefacenti e rideterminazione della pena” (Maggioli, 2014)

 

Ebbene, una volta preso atto della possibilità di procedere alla rimodulazione del trattamento sanzionatorio anche per quei procedimenti passati in giudicato [1], si è posto il problema di capire come tale ridefinizione della pena debba essere compiuta.

A questo proposito, da parte della giurisprudenza di merito, si sono registrati diversi indirizzi interpretativi [2].

Secondo un primo approccio interpretativo, è stato affermato come

«in forza del principio dell’intangibilità del giudicato – il giudice dell’esecuzione non possa (ri)esercitare i poteri discrezionali volti alla determinazione della pena da applicarsi in concreto ai sensi degli artt. 132, 133 e 133 bis c.p» [3]

proprio perché

«in ipotesi tassative, ed entro limiti predeterminati, infatti, l’ordinamento riconosce al giudice dell’esecuzione margini di discrezionalità normalmente propri della funzione del giudizio di cognizione, come nel caso della applicazione della continuazione in executivis, nella quale peraltro almeno una delle sentenze – quella applicativa della pena più grave – viene totalmente salvaguardata e su questa si calcolano gli aumenti di pena in forma discrezionale, o nel caso, sempre in ipotesi di applicazione della disciplina della continuazione, del giudizio sulla concedibilità della sospensione condizionale della pena» [4].

Tali ipotesi tassative, a loro volta, proprio in quanto tali, non sono

«applicabili analogicamente» [5]

e quindi

«il giudice dell’esecuzione resta vincolato al rispetto delle valutazioni di merito espresse nella sentenza di cognizione (…) ed, in genere, tutto l’argomentare e le valutazioni già compiute (esplicitamente e/o implicitamente) dal giudice di cognizione» [6].

Tal che, alla luce di siffatte considerazioni, è stato rilevato come

«al giudice sia attribuito unicamente il potere/dovere di rideterminare la pena inflitta, attraverso un’operazione meramente matematica e consistente nell’operare un calcolo proporzionale che individui la pena oggi costituzionalmente corretta, sulla cornice edittale prevista dalla fattispecie astratta nella sua formulazione precedente alla modifica dichiarata incostituzionale, applicando una pena che corrisponda – in proporzione – all’entità di pena applicata nella sentenza divenuta irrevocabile nella vigenza dei diversi minimi e massimi edittali» [7].

La ragione di tale approdo ermeneutico è stata ravvisata nella necessità di preservare sia

«i canoni valutativi adottati in sede di condanna sotto tutti i profili, con riferimento sia ai criteri di cui all’art. 133 c.p. sia ad eventuali aumenti e diminuzioni di pena per l’effetto di circostanze» [8],

sia

«il giudicato, sacrificandolo solo laddove esso entra in evidente contrasto con l’impossibilità di applicazione di una pena non più rispondente a quella oggi prevista nel nostro ordinamento» [9].

Secondo un differente filone interpretativo, a sua volta avvallato con differenti argomentazioni, la rideterminazione della pena non può avvenire secondo un calcolo di natura aritmetica essendo invece riconosciuto al giudice dell’esecuzione

«un ampio potere di rideterminare la pena inflitta, attraverso l’esercizio della discrezionalità che gli è propria nella commisurazione della pena adeguata al caso concreto, in applicazione degli artt. 132 e 133 c.p.» [10].

Nel dettaglio, questa tesi giuridica è stata riconosciuta più confacente rispetto all’altra in quanto solo in questo modo verrebbe garantita una

«compiuta attuazione al principio di legalità delle pene e di parità di trattamento punitivo perché si garantisce l’applicazione di una pena corrispondente a quella che conseguirebbero se il processo si facesse ora, mentre i vari criteri automatici proposti, nel tentativo di mantenere ferme le determinazioni del giudice della cognizione anche in punto di determinazione della pena, entro i limiti edittali previsti, non convincono perché la determinazione concreta della pena non può mai essere mera attuazione di criteri matematici» [11].

A sostegno di questo assunto, è stato osservato, in punto di diritto, che l’argomentazione avversa non è di per sé sufficiente ad inficiare quella in commento giacchè, quella relativa ai limitati poteri del giudice dell’esecuzione, sarebbe

«smentita dalla disciplina che consente l’applicazione dell’istituto della continuazione in sede di esecuzione» [12]

mentre, quella attinente la necessità di rispettare il giudicato (e quindi la proporzionalità dosimetrica stabilita dal giudice di cognizione), sarebbe non fondata atteso che il giudicato verrebbe superato

«proprio, e unicamente, in tema di commisurazione della pena, allo scopo di ricondurla alla legalità» [13].

Posto ciò, a fronte di questi due indirizzi interpretativi, si tratta di capire quali dei due debba considerarsi quello da osservarsi a seguito del recente arresto giurisprudenziale avvenuto per effetto della sentenza n. 42858 del 29 maggio 2014 (dep. il 14 ottobre 2014).

Sul punto, autorevole dottrina ha ritenuto che la Cassazione, in questo decisum, abbia aderito a questo secondo approccio ermeneutico.

Ed infatti, è stato asserito che sulla «scia di Sez. un., 24 ottobre 2013 n. 18821/2014, il massimo collegio riconosce al giudice dell’esecuzione “ampi margini di manovra”, non circoscritti alla sola verifica della validità e dell’efficacia del titolo esecutivo, ma estesi alla necessità di mantenere il rapporto esecutivo adeguato alla situazione normativa sopravvenuta, dipendente dalla sentenza di illegittimità costituzionale (nel caso di specie “intervenire per rimediare ad un limite normativo di operatività, imposto dalla disposizione poi ritenuta costituzionalmente illegittima, che inibiva al giudice della cognizione di procedere al giudizio di prevalenza della circostanza attenuante sulla recidiva di cui al quarto comma dell’art. 99 cod. pen.”)» [14] con l’unico limite che «l’operazione che il giudice dell’esecuzione si accinge a compiere non sia stata già esclusa espressamente in sede di cognizione per ragioni di merito, e cioè indipendentemente dalla circostanza che ci fosse illo tempore un divieto di legge»[15].

Orbene, a sommesso avviso di scrive, in questa sentenza non sembra rinvenirsi una recezione acritica di questo indirizzo interpretativo quanto piuttosto, seppur in forma non diretta, dell’altro.

Infatti, se è vero che in questa decisione sono stati riconosciuti al giudice dell’esecuzione “ampi margini di manovra”, è altrettanto vero che, in questa medesima pronuncia, è stato comunque postulato che

«il giudice dell’esecuzione non ha la stessa libertà del giudice della cognizione, dovendo procedere – non diversamente da quanto previsto negli artt. 671 e 675 cod. proc. pen., – nei limiti in cui gli è consentito dalla pronuncia di cognizione».

E quindi, al di là del riferimento a queste norme procedurali, è chiaro che il giudice dell’esecuzione potrà si rimodulare il trattamento sanzionatorio ma sempre nella misura in cui non si differisca da quanto fatto dal giudice della cognizione.

Ad esempio, ove in sede di merito, sia stata stabilita una pena in prossimità del minimo edittale ed essendo, a rigor di logica, esclusa l’applicazione di una sanzione nel medio o nel massimo edittale, non si potrà procedere in sede di esecuzione in un modo differente da quanto fatto nel giudizio.

Infatti, l’esclusione di una pena a un dato livello edittale concettualmente equivale, da un punto di vista logico-giuridico, allo stesso caso in cui la continuazione sia stata esclusa ovvero sia stata accertata la falsità di un atto o di un documento.

Si pensi al caso in cui il giudice della cognizione enunci le ragioni, nella sentenza da lui emessa, perché non ha potuto applicare una pena al massimo edittale o non ha potuto concedere le attenuanti generiche; ebbene, riconoscere al giudice di esecuzione in questi casi la possibilità di rimodulare liberamente la pena, facendo riferimento al massimo edittale o concedendo le attenuanti di cui all’art. 62 bis c.p., rappresenterebbe una evidente violazione del principio di intangibilità del giudicato che, pur non potendosi ritenere un dogma assoluto e non sacrificabile, può essere pretermesso, come si evince alla luce di quanto enunciato dalla Consulta nella sentenza n. 210 del 2013, unicamente

«nei casi in cui sul valore costituzionale ad esso intrinseco si debbano ritenere prevalenti opposti valori, ugualmente di dignità costituzionale, ai quali il legislatore intende assicurare un primato».

Ebbene, sotto il profilo del mero criterio di calcolo, nessuno di questi “valori” viene in gioco ben potendo la ri-quantificazione della pena avvenire attraverso criteri aritmetici proporzionali rispetto a quelli utilizzati in sede di cognizione.

In effetti, operando in tal modo, da un lato, la pena tornerebbe ad essere “legale”, dall’altro, verrebbe preservata la legittima restrizione della libertà personale del condannato.

Del resto, a conferma della fondatezza giuridica di detto assunto, milita anche il fatto che, se è vero, che nella Sez. un., 24 ottobre 2013 n. 18821/2014 è stato asserito che i poteri conferiti al giudice dell’esecuzione

«non sono circoscritti alla sola verifica della validità e dell’efficacia del titolo esecutivo, ma possono incidere, in vario modo, anche sul contenuto di esso»,

è altrettanto vero che, sempre secondo quanto affermato in tale pronuncia, ciò può avvenire solo

«allorquando imprescindibili esigenze di giustizia, venute in evidenza dopo l’irrevocabilità della sentenza, lo esigano».

Quindi, anche attenendoci a questo passaggio argomentativo, è chiaro che i margini di manovra concessi al giudice dell’esecuzione rilevano e possono valere solo se necessari per perseguire siffatte finalità che, nel caso di specie, come appena esposto, possono essere raggiunte attraverso la mera modulazione aritmetica della pena corrispondente a quella fissata dal giudice della cognizione.

Infine e in conclusione, al di là di quale delle due opzioni ermeneutiche si voglia aderire, sarebbe comunque opportuno che le Sezioni Unite intervenissero al fine di chiarire quale interpretazione, tra quelle illustrate in questo scritto, debba essere impiegata.


[1]Sul punto, vedasi: M. Gambardella, La nuova disciplina in materia di stupefacenti, Milano, Giuffrè editore, 2014; A. Viglione, Le modifiche al sistema sanzionatorio in materia di stupefacenti, Torino, Giappichelli editore, 2014; A. Di Tullio D’Elisiis, Nuova disciplina degli stupefacenti e rideterminazione della pena, Sant’Arcangelo di Romagna, Maggioli editore, 2014; N. Canestrini, Si ridetermina la pena definitiva per stupefacenti dopo la sentenza 32/14 Corte Costituzionale?, www.canestrinilex.it. Per la giurisprudenza, valga per tutte: Cass. pen., Sez. Un., sentenza, 29 maggio 2014 (dep. 14 ottobre 2014), n. 42848, in www.dirittopenalecontemporaneo.it.

[2]Per una disamina di questi indirizzi ermenutici, vedasi: M. De Micheli, La declaratoria di illegittimità costituzionale della legge “Fini-Giovanardi” e la rideterminazione della pena irrogata con sentenza irrevocabile, A margine di GIP di Bologna, ord. 27 maggio 2014, Giud. Giangiacomo, in www.dirittopenalecontemporaneo.it; N. Canzian, Il (superato) limite del giudicato e l’ampiezza dei poteri del giudice dell’esecuzione a fronte dell’incostituzionalità della cornice edittale: prime pronunce a seguito della sent. n. 32/2014, Trib. Milano, Sez. XI pen., 3 aprile 2014, (ord.) Giud. Cotta; Trib. Trento, Sez. Incidenti esecuzione, 18 aprile 2014, (ord.) Giud. Ancona, in www.dirittopenalecontemporaneo.it; M. C. Ubiali, Dichiarazione di incostituzionalità della disposizione più sfavorevole: il giudice dell’esecuzione ricalcola la pena, GIP Trib. Pisa, 15 aprile 2014, giud. Bufardeci, in www.dirittopenalecontemporaneo.it.

[3]Trib. Matera, ufficio G.I.P., ordinanza del 26/09/2014, in Diritto & Giustizia, 27/10/2014.

[4]Ibidem.

[5]Ibidem.

[6]Ibidem.

[7]Ibidem.

[8]Trib. Bologna, ufficio G.I.P., ordinanza del 27/05/2014, in www.dirittopenalecontemporaneo.it.

[9]Ibidem.

[10]Trib. Lecce, ufficio G.I.P., ordinanza del 10/06/2014, in www.canestrinilex.it.

[11]Trib. Rovereto, ufficio G.I.P., ordinanza del 17/04/2014, in www.canestrinilex.it.

[12]Trib. Treviso, g.e., ordinanza del 18/06/2014, in www.dirittopenalecontemporaneo.it.

[13]Ibidem.

[14]G. Romeo, Le Sezioni unite sui poteri del giudice di fronte all’esecuzione di pena “incostituzionale”, Cass., Sez. un. pen., 29.5.2014 (dep. 14.10.2014) n. 42658, Pres. Santacroce, Rel. Ippolito, ric. Gatto, in www.dirittopenalecontemporaneo.it.

[15]Ibidem.

 

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