Matteo Renzi e il rischio del consenso: gli esempi di Monti e Berlusconi

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Non è stata una vittoria, è stato un tripudio. Contro tutte le previsioni dei sondaggisti, clandestini e non, Matteo Renzi ha trionfato alle elezioni europee, regionali e amministrative di domenica. Ma, ora, deve stare ben attento ai prossimi passi: la gestione di un capitale di fiducia così vasto potrà essere propulsore di rinnovamento o, al tempo stesso, potrà segnare la fine della spinta innovatrice di cui il premier si è fatto portavoce. Tutto dipende dal governo e, in primo luogo, dall’uomo politico del momento.

Se è vero, infatti, che il bonus degli 80 euro ha certamente influito per il risultato elettorale, allo stesso modo non va sottolineato come il 40,8% raggiunto dal Partito democratico sia in realtà figlio più del Renzi “rottamatore” che non del presidente del Consiglio.

Ottanta giorni appena, infatti, non sono e non devono essere sufficienti per giudicare l’operato di un governo, per quanto subentrato al predecessore senza ricorrere a libere elezioni. Un “peccato originale” che gli elettori hanno abbondantemente perdonato al premier, tributando al Partito democratico non solo il più alto risultato della sua storia – che già, di per sé, sarebbe stato un successone – ma un margine paragonabile solo alle elezioni del 1958, con la Democrazia cristiana guidata da Amintore Fanfani e il Senato ancora in carica sei anni. Insomma, gli albori della Repubblica.

Gli ultimi dati raccolti a caldo dopo l’exploit di domenica, com’era facile da immaginare, proiettano Renzi al top della fiducia che gli elettori riconoscono nei vari leader. La figura del presidente del Consiglio si mostra rassicurante per il 57% dei cittadini secondo l’istituto Ixè, dunque in fortissima ascesa dopo il voto. Non solo questa risalita nei confronti del premier era facilmente intuibile, ma c’è da attendersi che nei prossimi mesi la sua popolarità continuerà a crescere, sull’onda del largo consenso espresso nelle urne.

Così, dopo essere arrivato a palazzo Chigi senza il mandato delle elezioni politiche, adesso Renzi si trova nella condizione migliore per guidare il governo e la sua maggioranza: il 40,8% gli consente di tenere a bada gli alleati esterni al “suo” Pd, con la minaccia implicita di ripetere lo stillicidio di domenica alle eventuali elezioni anticipate, in caso di qualche bizza di troppo. Ma oltre al sostegno parlamentare, il “magic moment”di Matteo Renzi si riflette innanzitutto sull’opinione pubblica, dove il suo gradimento sta salendo verso vette plebiscitarie.

Eppure, se il premier non saprà fare tesoro di questo frangente, capitalizzando al massimo l’incredibile forza che la sua figura ha guadagnato dopo le europee, onori e allori potrebbero svanire d’incanto come la pianta di ficus di Fantozzi, mentre il megadirettore sta perdendo tutto al casinò.

Sfortunatamente, la storia recente d’Italia è zeppa di esempi da non seguire per valorizzare il consenso di un leader nel suo momento d’oro. Vediamo i due più eclatanti.

Mario Monti, dopo la nomina flash a senatore a vita, diviene presidente del Consiglio nel novembre 2011, con Berlusconi scalzato a colpi di spread, (e, forse, di una spintarella a stelle e strisce, ma questa è un’altra storia). Fatto sta che, mentre quotidiani e organi di informazione non lesinano toni apocalittici – memorabile il “Fate presto” del Sole 24 Ore – l’ex commissario europeo diventa per tutti il salvatore della Patria, l’unico che può salvare l’Italia dal baratro. A fine mese, la fiducia degli italiani per Mario Monti è totale: l’83,8% dichiara di apprezzare la figura del professore milanese e il 53,3% apprezza anche quella di Corrado Passera, allora neoministro dello Sviluppi Economico (rilevazione Demos&Pi). Peccato che, di lì a poco, il governo Monti darà vita a rigidissime misure di austerity che hanno dissanguato contribuenti e aziende, a un fisco sempre più ficcanaso e vendicativo, ma, soprattutto, alla riforma Fornero, prima delle pensioni, poi del lavoro, con gli annessi e connessi di esodati, pensioni rinviate sine die, invecchiamento costante della popolazione lavorativa e sbocchi sempre più ridotti per i giovani. Risultato: un anno dopo, Monti darà le dimissioni prima della chiamata elettorale, presentandosi come l’alternativa moderata alla destra legata ancora al Cavaliere, riuscendo, infine, a superare il quorum per un soffio al Senato. A distanza di un anno, il centro è sparito da tutti i radar geografici e Monti se ne sta in disparte, o magari presenzia a qualche convegno, ben lontano dall’agone politico.

Ancora più indietro, possiamo tornare al 2008, per vedere come Silvio Berlusconi, reduce dalla batosta elettorale inflitta a Veltroni e al Pd, potesse godere di oltre il 60% della fiducia dell’opinione pubblica secondo Ipr Marketing. Attorno a lui, figure che oggi, guardandosi indietro, potrebbero strappare un sorriso e qualche imprecazione, come Mariastella Gelmini al top di gradimento tra i vari ministri. Poi, com’è andata a finire, è storia nota: prima la riforma Brunetta nella PA, poi la stessa riforma della scuola e dell’università, mentre la vita privata di Berlusconi scivolava rapidamente verso le vicende che occuperanno cronache – e aule parlamentari – fino al giorno dell’addio, tra scandali a luci rosse e un’immagine internazionale dell’Italia ai minimi storici.

Insomma, Renzi tenga bene a mente queste due parabole: sarà anche vero che adesso la sua poltrona è più salda, ma non capitalizzare a dovere il voto di domenica potrebbe essere un errore fatale. Nessuno, prima di lui, ha mai goduto di un simile appoggio da parte della popolazione. Gettare alle ortiche un tale patrimonio costituirebbe non solo il suicidio della sua immagine pubblica, ma, soprattutto, un vero e proprio delitto in piena regola verso il Paese. Uno spreco che, stavolta, gli elettori non perdoneranno.

 

Francesco Maltoni

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