Il dirigente pubblico è un manager zoppo! La riforma PA di Renzi e Madia

Redazione 28/05/14
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La proposta di riforma della PA, targata Renzi/Madia, può costituire la volta buona?  Ha maggiori chance di successo o prenderà la deriva della riforma Brunetta, che ha prodotto una nuova alluvione di  norme prive di efficacia.

Il presente articolo è firmato da Sergio Rosato, direttore dell’Agenzia Veneto Lavoro

La PA è  sempre  più considerata la palla al piede del Paese, pletorica, inefficiente, corrotta. Il processo di modernizzazione, la semplificazione, lo sviluppo tecnologico ? …. Propaganda che produce altre leggi, decreti, che rinviano ad altri provvedimenti, all’infinito. Intanto, in ogni finanziaria, in  ogni manovra  economica si introducono editti, divieti, vincoli, lacci, laccioli: la gestione di un ente è diventata un rompicapo, altro che superare il problem solving e agire  con il metodo del problem setting !

In questi giorni torna alla ribalta sulla stampa il tema della dirigenza pubblica, si discute di modelli, di  ruoli, di mobilità, di retribuzioni, di licenziabilità.  Da ultimo spunta la parola “magica”: non più esperti, ma manager (vedi lettera al Messaggero del Ministro Madia: “figure professionali eccessivamente specializzate, esperti per materia o per area, più che dirigenti idonei a gestire, in modo trasversale risorse umane ed economiche”).

Eureka!!! Ci vogliono i manager. Ma lo sa la giovane ministra  quanti grandi manager  sono approdati dal privato al pubblico, fallendo miseramente la mission ? Potrei farle nomi illustri.

Poiché è impensabile che l’insuccesso dipenda dalla loro incapacità è evidente che il problema risiede altrove, vale a dire nei  meccanismi  della  pubblica amministrazione che non sono congegnati  per una gestione manageriale.  In realtà il dirigente pubblico è  un manager zoppo !!!

Molti sono gli handicap che lo rendono claudicante: non è in condizione  di definire gli obiettivi di lungo termine, non negozia il budget, non esercita il controllo pieno sulle risorse, non risponde dei risultati.

Ma è sul punto delle “risorse” che mi voglio soffermare, aspetto che nel settore pubblico si identifica quasi sempre con il problema del “personale”. Questo ci porta a rivisitare l’annosa questione del “lavoro nella pubblica amministrazione”, vexata quaestio  che   angoscia il Paese sin dagli albori della repubblica.

La domanda di fondo (retorica) è questa: si può  modernizzare la pubblica amministrazione, si possono attuare le riforme necessarie, si possono ridurre i costi improduttivi,  senza una specifica politica del lavoro per questo settore? La risposta scontata risiede nella banale constatazione –  di tipo squisitamente economico –  che gran parte del fatturato della P.A. viene assorbito dal costo del personale e  che il grado di efficienza ed efficacia  dei servizi pubblici  è in gran parte determinato dall’uso che si fa delle risorse umane.

Resta questo il  grande problema, che non può  essere affrontato con le vecchie ricette.

Considerazioni preliminari

A lungo si è discusso in ordine ad una presunta “specificità” del lavoro alle dipendenze della P.A., dibattito viziato da pregiudizi ideologici, che hanno fatto da copertura alle peggiori logiche gattopardesche e alle finte innovazioni.

Questo non significa che  tutto sia rimasto immutato, anzi si sono ciclicamente verificati profondi processi di trasformazione, che in alcuni passaggi hanno anche lasciato il segno, senza tuttavia portare ad una vera riforma. Non  vi è qui lo spazio per una ricostruzione storica, segnalo solo un momento cruciale  dell’evoluzione di questo dibattito: l’avvio di processi di new public management, che a partire dagli anni 90 hanno interessato i sistemi amministrativi pubblici, stimolando un processo di omologazione  tra lavoro pubblico e privato.

Questi due processi, che dovevano portare ad una profonda ristrutturazione (nel senso industriale del termine) e ad una reale modernizzazione,  sono stati metabolizzati dal corpaccione molle della pubblica amministrazione, con una differenza di fondo rispetto al passato, una rilevante maggiore disponibilità di risorse finanziarie e una moltiplicazione dei centri di spesa.  La politica che prima usava la P.A. prevalentemente come strumento di controllo sociale  e di consenso, scopre la grande potenzialità  del c.d. sistema pubblico allargato di essere centro degli interessi economici, non solo in termini di potere, ma anche come gestione diretta  di ingenti risorse economiche da distribuire. Paradossalmente  anche quella parte del  ceto politico,  che tuona contro gli sprechi e i parassitismi degli apparati pubblici (altrui),  quando ne conquista il controllo perpetua le medesime logiche.

Rispetto al tema lavoro si è assistito nel corso di questi 20 anni ad una overdose normativa, con una ciclica e torrenziale sovrapposizione di norme, determinata dai cedimenti alle emergenze, dalle logiche propagandistiche che le ispirano,  da ultimo da rinati furori ideologici.

Le ultime leggi  finanziarie  hanno  portato al parossismo  questo processo introducendo in un sol colpo   criteri discutibili, divieti insensati, caos interpretativo, che lungi dal produrre benefici nella  spesa pubblica per il personale, rendono sempre più  ingestibile l’organizzazione dei servizi, accentuando i costi ed  abbassando  la qualità.

La condivisibile esigenza di un intervento  volto a correggere   una  situazione distorta, a causa dell’incremento indiscriminato delle esternalizzazioni,  del ricorso a collaboratori esterni con criteri discutibili, dell’utilizzo improprio del lavoro flessibile per coprire esigenze strutturali di organico, è stata snaturata dall’approccio ideologico e dalla insipienza tecnica. Sono prevalse, purtroppo, due ossessioni, diverse e convergenti, che in questo momento agitano il dibattito politico sul lavoro e che hanno   offuscato la mente del legislatore: la logica dei tagli e dei contenimenti di spesa indiscriminati, il pregiudizio verso  tutto ciò che viene definito lavoro flessibile.

Tuttavia, quello che sconcerta  è la filosofia di fondo che traspare da questo dissennato agire.

Alla base vi è la resa di fronte agli insuccessi dei processi di ammodernamento che,  a partire dal D.Lgs. 29 del 1993  fino al D.Lgs. 165 del 2001, avevano caratterizzato una nuova stagione dell’impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni.  Un cammino difficile che aveva come principio ispiratore il superamento della specificità della disciplina e la graduale compatibile adozione degli strumenti utilizzati dall’impresa. La logica d’impresa si basa sul principio ineludibile che l’utilizzo delle risorse umane risponda alle  esigenze  organizzative, produttive e tecniche,  con l’unico scopo della sua efficienza ed efficacia. La funzione del dirigente è quella di organizzare il lavoro e di gestire con capacità e nel rispetto delle leggi e dei contratti il capitale umano utilizzato nell’impresa. Per lo stesso disporre di strumenti normativi e contrattuali che rendano possibile la selezione, l’utilizzo flessibile e l’uscita del personale è vitale.  Gli unici parametri che concorrono alla valutazione del suo operato sono  i risultati conseguiti e la correttezza della gestione.

Questo basilare elemento, da cui nessuna organizzazione moderna può prescindere, è stato viceversa smarrito, allorché si è rinunciato a far seguire alle modifiche normative in materia di personale le necessarie ristrutturazioni organizzative e produttive di cui il sistema aveva bisogno.

Si è concesso, pertanto, alla dirigenza pubblica un potere di gestire la flessibilità al di fuori delle logiche di impresa, per lo più  per motivi  di emergenza  ma più spesso  per scopi impropri.  Si è determinato  così una situazione  in cui  la flessibilità, lungi dal portare benefici in termini di maggiore produttività e di efficienza del sistema pubblico, ha generato in molti casi situazioni di  spreco e di clientelismo.

Invece di partire da una seria analisi delle cause che determinano questo disastro e di trovare i correttivi che incidano su di esse, da almeno tre anni si procede a strappi, senza una strategia che non sia quella del divieto e della minaccia, salvo poi fare clamorosa marcia  indietro di fronte agli effetti non previsti di questo modo d’agire

 

Le cause di fondo che hanno portato al disastro attuale sono così riassumibili:

  1. Il massiccio trasferimento di compiti dallo Stato alle Regioni e agli enti locali,  senza una contemporanea razionalizzazione  degli apparati amministrativi centrali
  2. Il  blocco indiscriminato delle assunzioni, che ha acuito le carenze di personale al nord e in alcuni settori, moltiplicando il precariato, senza effettivi risparmi di spesa
  3. Il fallimento dei processi di mobilità  territoriale e professionale

 

Gli amministratori pubblici,  di fronte all’impossibilità di far fronte per via ordinaria alle esigenze di personale, hanno supplito con alcune misure tampone:

a)      esternalizzando i servizi,  ampliando oltre misura il ricorso ad appalti e creando una economia drogata, formalmente di mercato  ma di fatto dipendente dalla spesa pubblica allargata;

b)      inserendo personale temporaneo in attività stabili, ricorrendo a continue proroghe e sanatorie;

c)      ricorrendo a collaborazioni esterne;

d)     finanziando il fabbisogno maggiore con risorse derivanti da fondi speciali (fondi strutturali europei, altri trasferimenti) per loro stessa natura inidonei a coprire spese di natura corrente come quelle per il personale.

In questo contesto molti hanno approfittato per effettuare assunzioni e  conferire incarichi in forma clientelare, nel mentre molti finti imprenditori hanno realizzato consistenti profitti, acquisendo appalti al ribasso, ma scaricandone i costi sulle remunerazioni dei lavoratori. La maggior parte della schiera dei precari mal pagati si annida in questo indotto.

Il blocco delle assunzioni e della mobilità, lungi dal produrre una riduzione della spesa,  ha  prodotto conseguenze nefaste nella qualità dei servizi, ma ancor più ha contribuito a determinare una situazione di non ritorno, perché diventa oggi pressoché  impossibile interrompere i servizi pena danni maggiori dei risparmi conseguibili.

La  grida manzoniana “basta precari nella p.a.”, lungi dal produrre effetti benefici travolge anche gli enti più  virtuosi.

Una reale inversione di rotta avrebbe dovuto avere un approccio completamente diverso:

a)      ripristinare il processo di modernizzazione agendo sullo sblocco selettivo delle assunzioni, utilizzando il turn over e per molti versi incentivandolo;

b)      creare incentivi reali alla mobilità sud/centro –  nord ;

c)      incrementare la produttività del lavoro  pubblico,  agendo non sui singoli ma su processi di riorganizzazione incentivata.

Redazione

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