I lavoratori italiani a termine sostano alle porte dell’Europa

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Un altro passo è stato compiuto dalla Pubblica Amministrazione nel lento processo per metabolizzare ed applicare nell’ordinamento nazionale un principio cardine del diritto sociale europeo, rappresentato dal divieto di discriminazione del lavoratore a termine rispetto a quello titolare di un rapporto a tempo indeterminato.

Nell’ordinamento comunitario il principio è stato sancito dalla clausola 4 dell’Accordo Quadro sul lavoro a tempo determinato del 18.3.1999, trasfuso poi nella Direttiva 1999/70/CE del 28.6.1999, secondo la quale per quanto riguarda le condizioni di impiego, i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive.

Il punto 4 della medesima clausola, in particolare, precisa che i criteri del periodo di anzianità di servizio relativi a particolari condizioni di lavoro dovranno essere gli stessi sia per i lavoratori a tempo determinato sia per quelli a tempo indeterminato, eccetto quando criteri diversi in materia di periodo di anzianità siano giustificati da motivazioni oggettive
La Corte di Appello di Roma, con la recente sentenza sez. lav. 25-3-2014 n. 2951, ha dato nuovo impulso al processo di integrazione del sistema del lavoro pubblico italiano con il principio comunitario, segnando una tappa fondamentale nel consolidamento anche in secondo grado di un orientamento ormai prevalente presso i Tribunali di merito.

Il Collegio, difatti, ha confermato la decisione del giudice di prime cure sull’applicazione del principio di non discriminazione, sancito dalla direttiva comunitaria, con riguardo al computo, ai fini dell’anzianità di servizio, dell’attività lavorativa prestata presso un ente pubblico con i contratti a tempo determinato. L’Ente dovrà dunque ricostruire la carriera dei dipendenti conteggiando anche i periodi di tempo in cui l’attività lavorativa è stata svolta sulla base di un rapporto a termine.
Potrebbe apparire come un buon segnale, quello del riconoscimento di un principio fondante del diritto sociale comunitario, se non fosse altro che l’integrazione con le regole dell’ordinamento comunitario, voluta dall’Europa nel lontano 1999, sta maturando seguendo il decorso naturale dei tempi della giustizia nazionale.

Eppure, l’obbligo di applicare il diritto comunitario nell’ordinamento nazionale e di tutelare i diritti che esso attribuisce ai singoli non grava soltanto sui giudici ma, primi fra tutti, sugli organi dell’amministrazione pubblica, che in questa occasione sembra invece preferire una diversa applicazione del principio comunitario di non discriminazione, aprendo così la strada all’ennesimo conflitto tra poteri dello Stato che si ripercuote in danno dei cittadini.
Al riguardo la Corte di Giustizia UE ha sempre ribadito (sent. 13.9.2007, C-307/05, Del Cerro Alonso) che le prescrizioni dell’Accordo Quadro e della Direttiva sono applicabili anche ai contratti e ai rapporti di lavoro a tempo determinato conclusi con le Amministrazioni e con altri enti del settore pubblico dacché trattasi di regole fondamentali del diritto comunitario che, in quanto tali, devono trovare applicazione a tutti i lavoratori, pubblici e privati che siano.

D’altronde, risulta assai arduo comprendere come si possa riconoscere, in ragione soltanto del carattere temporaneo del rapporto di lavoro di taluni dipendenti, una discriminante rispetto ai dipendenti a tempo indeterminato.
É auspicabile che in “Un Paese più semplice e capace di dare risposte” si affermi come priorità la restituzione della dignità al lavoro precario, tanto più che oggi, alla luce delle disposizioni urgenti del Jobs Act (DL n. 34/2014), la stipula di contratti a termine è di fatto liberalizzata, non essendo più necessario giustificare l’apposizione di una data di fine contratto.

Gianluca Fasano

Gianluca Fasano

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