La Riforma dei Mali Culturali

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Parto da un titolo provocatorio per discutere della riorganizzazione del Ministero dei Beni Culturali e del Turismo e per fare qualche riflessione di carattere generale sul ruolo dei Beni Culturali in Italia.

Li ho chiamati “Mali Culturali” perché ho come l’impressione che in Italia il Patrimonio culturale sia sempre stato considerato come un peso da parte di molte Istituzioni e, perché no, anche da una buona fetta di cittadinanza.

Pensateci bene. Volete costruire una casa su un fondo di vostra proprietà? Vi vietano di farlo a causa di un vincolo paesaggistico. Possedete un immobile storico? Solo per cambiare il WC vi serviranno infinite autorizzazioni. Scavate per costruire una casa e trovate un vaso antico? Addio casa.

E via dicendo.

Per non parlare poi dei numerosissimi reati di abusivismo edilizio, sviluppatisi proprio a causa dei numerosi vincoli ambientali o dell’incuria in cui versa una grossa fetta del Patrimonio storico-archeologico d’Italia.

Insomma, per farla breve, a cosa servono questi beni culturali in Italia se pochi (davvero pochi) ne apprezzano il valore? A cosa è servito inserire sotto l’egida del MIBAC anche la materia del Paesaggio e del Patrimonio Immateriale quando pochi (sta volta ancor più pochi) sanno riconoscere l’unitarietà della tutela di questi elementi culturali?

Ma soprattutto a cosa serve possedere il 70% del Patrimonio culturale mondiale se è generalizzata e diffusa l’idea che rappresenti solo un problema di fronte agli interessi particolari?

Prima di parlare della riforma del MIBACT occorrerebbe riflettere su quanto la materia “Cultura” sia un’illustre sconosciuta ai più, anzi, peggio, un intoppo, un fastidio e, di conseguenza, qualcosa che si può gestire dalle Istituzioni con fondi limitati e strutture elefantiache, a volte fini a sé stesse.

Qui entriamo nel campo della politica.

Diciamolo chiaramente, in Italia mai nessuno ha voluto seriamente scommettere sul Patrimonio Culturale quale volano di un’economia basata sui servizi anziché sulla produzione e sulla produttività. Altrimenti non ci troveremmo in una crisi economica dettata soprattutto dal declino della produzione industriale e del manifatturiero quando sono ben altre le peculiarità che caratterizzano l’Italia e che il mondo c’invidia.

In altre parole mai nessuno ha percepito l’importanza di puntare su ciò che abbiamo e che nessuno può mai imitare: il nostro Patrimonio storico, artistico, paesaggistico e demoetnoantropologico.

Anzi, a dire il vero qualcuno ci ha pensato. Correva l’anno 1974. Il 14 dicembre Giovanni Spadolini istituì il Ministero dei Beni culturali e ambientali (prima la competenza era del Ministero della Pubblica istruzione e dell’Interno nonché della Presidenza del Consiglio dei Ministri) e, per la prima volta nella storia repubblicana, una materia così importante passava sotto la competenza di un Ministero ad hoc.

Forse pochi comprendono la straordinaria intuizione dell’illustre politico, in un periodo in cui tutti (partiti, istituzioni, imprese, ecc.) puntavano sullo sviluppo industriale e tecnologico e pochi avevano a cuore la tutela dei beni culturali e dell’ambiente, Spadolini si mosse affinché l’enorme Patrimonio culturale e ambientale fosse salvaguardato, grazie all’opera di un ministero tecnico e incisivo. Peccato che nel corso del tempo iniziò a diventare sempre più pesante e complesso e, si mormora, un bacino di interessi particolari e di categoria.

Una vision poco chiara su ciò che si vorrebbe fare del Patrimonio culturale nonché uno sviluppo del Ministero divenuto nel corso del tempo sempre più pesante (tanto che dei fondi a disposizione una buona parte serve per alimentare la macchina burocratica) hanno portato, da allora ad oggi, a ben sette riforme, più o meno incisive e tutte concentrate negli ultimi quindici anni.

La più incisiva fu quella del 1998, che includeva anche le Attività culturali: cinema, teatro, danza, musica e spettacolo. Poi nel 2009 ci fu un’altra riforma che, tra l’altro, introduceva la Direzione Generale per la valorizzazione del Patrimonio culturale. A onor del vero non ho mai compreso le ragioni di questa scelta. Come se tutela e valorizzazione non fossero due aspetti intimamente legati e necessariamente comunicanti. Ma tant’è.

Finalmente nel 2013 la materia del Turismo è passata dal Ministero per gli Affari Regionali al MIBAC, divenendo, così, MIBACT e dimostrando (ripeto: finalmente) la sensibilità del Governo sull’importanza di legare il concetto di Turismo a quello di Patrimonio culturale (finalmente!).

Oggi è in atto una nuova “riforma” del MIBACT, presentata dal Ministro Bray nel precedente Governo. Una riforma criticata praticamente da tutti, sia all’interno che all’esterno del Ministero stesso.

Ma cosa prevede questa “riorganizzazione” del Ministero?

La riorganizzazione, in realtà, è dovuta alla Spending review, che impone al Ministero in questione una serie di razionalizzazioni di spesa e accorpamenti di direzioni generali e di direzioni regionali.

Le direzioni regionali passano da diciassette a tredici e le direzioni regionali diventano nove, con l’introduzione della direzione dedicata al Turismo.

Viene accorpata la Direzione alle Antichità (che comprende i beni archeologici) a quella delle Belle Arti, Paesaggio e Architettura, facendo nascere una mega Direzione al Paesaggio e al Patrimonio Storico e Artistico. Nella “riforma”, però, l’Arte e l’Architettura contemporanea passano sotto l’egida della Direzione generale dello Spettacolo dal vivo.

Nascono inoltre direzioni generali dedicate all’innovazione, all’organizzazione del personale e al bilancio e contratti.

Non è mia intenzione spendermi sulle critiche di dettaglio, in quanto sono già numerosi gli articoli in rete che analizzano e scandagliano una riforma che non piace praticamente a nessuno, sia perché punta al risparmio, sia perché accorpa o separa competenze e funzioni e sia perché introduce personale esterno con compiti e funzioni simili a quello interno.

Tuttavia è mia intenzione soffermarmi su due aspetti della riforma.

Il primo. A me questa riforma appare come un “ridisegno ideale” del ruolo del Ministero, cioè come una visione diversa e alternativa di come si vuol tutelare e valorizzare il Patrimonio culturale. O quantomeno un tentativo di ristrutturare l’organizzazione e lo fa partendo da un’idea diversa di gestire i beni culturali.

Insomma, un po’ come quando si decide di reinventare il proprio look, partendo da un cambiamento ormai interiorizzato. Il Ministero aveva interiorizzato l’idea che turismo e cultura siano il volano per uscire dalla crisi.

L’unico problema è che ci vorrebbero anni (senza ulteriori riforme) per percepirne i risultati, e magari qualche fondo in più.

Il secondo. Viene introdotta una Direzione Centrale dedicata al Turismo. Pare poco, ma è un modo per dimostrare che il turismo ha la stessa importanza del Patrimonio culturale e che va legato sia ad esso sia alle Attività culturali.

In altre parole è stata accolta l’idea (ormai diffusa tra operatori e cittadini) che il turismo è l’unico mezzo per uscire dalla crisi, perché ci riporta ad apprezzare e promuovere le città e i paesi in cui viviamo, sia in Italia che nel Mondo. Se lo facciamo (bene) dal basso, perché non coordinare tutto dall’alto? Credo sia questa l’idea interiorizzata dal Ministero.

Cioè, questa è una visione che punta a dare dignità al turismo culturale (quello che produce il 3,4% del PIL del Regno Unito, per intenderci).

Insomma, vi pare poco? Se Giovanni Spadolini fosse vivo, plaudirebbe al Ministro Bray o quantomeno si incuriosirebbe a questa riforma.

Ora vediamo se il Ministro Franceschini sappia scommettere su questa scellerata riforma o proporre qualcosa di alternativo. Nell’uno o nell’altro caso, l’importante è di puntare su Turismo e Cultura.

Giovanni D’Elia

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