La sentenza di assoluzione della cassazione nel caso vivi down

Redazione 11/02/14
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La Corte di Cassazione con la sentenza  n. 3672, depositata il 3 febbraio 2014  ha messo definitivamente la parola fine all’annosa questione salita agli onori delle cronache come vicenda “Google-Vividown”. La terza sezione penale della Corte di Cassazione ha reso note le motivazioni della sentenza depositata in data 18 dicembre 2013, con la quale è stata confermata l’assoluzione dei manager di Google Italia sotto processo per un video diffuso nel 2006 raffigurante un minorenne disabile di Torino maltrattato dai compagni di scuola.

La questione ha fatto molto discutere e ha suscitato parecchio clamore. Il video, in cui si vedeva un giovane studente, affetto dalla sindrome di Down, preso in giro con frasi offensive ed azioni vessatorie riferite alla sua particolare sindrome dai propri compagni di scuola, era stato caricato su Google video, servizio di internet hosting, all’insaputa di tale soggetto.

La vicenda è approdata nella aule di giustizia con un procedimento penale a carico di tre amministratori della società imputati per trattamento dati personali in violazione degli art. 23, 17 e 26 del d.lgs. 196/2003. La condotta contestata consisteva nell’aver omesso un’informativa sulla privacy, visualizzabile in italiano dalla pagina iniziale del servizio Google Video in sede di attivazione del relativo account.

Il procedimento giudiziario si è articolato, nel corso degli anni, in una sentenza resa in primo grado  ( Tribunale di Milano, sentenza n. 1972 del 24 febbraio 2010) che ha mandato assolti gli imputati dalle accuse di diffamazione ma li ha condannati a sei mesi di reclusione (pena sospesa) per violazione della privacy (si imputava ai tre di aver, in concorso omissivo tra loro, violato, tra le altre norme, anche l’art. 167 d.lgs. n. 196 del 2003 – Codice della privacy – con relativo nocumento per la persona interessata).

Con la successiva sentenza della prima Sezione Penale della Corte d’Appello di Milano, depositata il 27 febbraio 2013, gli imputati sono stati mandati assolti con la formula “perché il fatto non sussiste”.

La questione ha fatto molto discutere sia gli operatori del diritto  e che gli operatori di internet perché lungi dal “molto rumore per nulla”, secondo la citazione utilizzata dalla sentenza di primo grado, si è di fronte ad una vicenda che attiene, come affermano i Giudici di appello, alla questione del “governo di internet”; per la sua esatta qualificazione giuridica e per la sua soluzione, impone ai giudici di perimetrare l’ambito della responsabilità penale degli operatori del web.

Sostanzialmente il provider non avrebbe alcun controllo sulle informazioni archiviate e non contribuirebbe in alcun modo alla loro selezione, alla loro ricerca o alla creazione del file destinate a contenerle; tali dati sarebbero invece ascrivibili al destinatario del servizio che li carica su una piattaforma. Nel caso specifico, Google Italia avrebbe quindi agito come “mero Internet host provider”, cioè come un soggetto che si sarebbe limitato a fornire una piattaforma all’interno della quale gli utenti possono caricare liberamente i loro filmati.

Andando nello specifico, i giudici hanno effettuato una ricostruzione dettagliata del quadro normativo interno di riferimento, analizzando gli articoli di interesse non solo del Codice Privacy (d.lgs. 196/2003) ma anche del d.lgs. 70/2003 relativo alle disposizioni sul commercio elettronico enucleando i seguenti concetti fondamentali:

a)    non sussiste, in capo ad un Internet Service Provider, anche qualora lo stesso sia qualificabile come hosting provider, un obbligo di sorveglianza dei dati immessi da terzi sul sito da lui gestito; né sussiste in capo allo stesso alcun obbligo sanzionato penalmente di informare il soggetto che ha immesso i dati (uploader) dell’esistenza e della necessità di fare applicazione delle norme contenute nel Codice della Privacy.

b)    è necessario specificare i limiti di interazione tra i concetti di “trattamento” e di “titolare del trattamento”: mentre il primo è un concetto ampio, comprensivo di ogni operazione che abbia ad oggetto dati personali indipendentemente dai mezzi e dalle tecniche utilizzati, il concetto di “titolare” è, invece, assai più specifico, perché si incentra sull’esistenza di un potere decisionale in ordine alle finalità, alle modalità del trattamento di dati personali e agli strumenti utilizzati;

c)   pertanto, Google è pienamente definibile come Internet Hosting Provider e, come affermato anche nella Sentenza della Corte di Giustizia europea nella causa C-131/12, tale soggetto è riconducibile alla categoria dei titolari del trattamento di dati solo laddove incida direttamente sulla struttura degli indici di ricerca, ad esempio favorendo o rendendo più difficile il reperimento di un determinato sito;

d)   nel caso di specie, quindi, il titolare del trattamento dei dati caricati sul sito Google Video è l’utente (uploader) che li ha caricati, in quanto l’essere titolare del trattamento deriva dal fatto concreto che un soggetto abbia scelto di trattare dati personali per propri fini; con la conseguenza che la persona che può essere chiamata a rispondere delle violazioni delle norme sulla protezione dei dati è il titolare del trattamento e non, invece, il mero hosting provider;

La conclusione è, quindi, ritenendo le argomentazioni indicate sufficienti per la conferma dell’assoluzione disposta con la sentenza impugnata, che i giudici di legittimità lasciano poco spazio alle considerazioni in merito all’elemento soggettivo del reato, limitandosi ad evidenziare come il dolo del reato di cui all’art. 167 Codice Privacy non sia ravvisabile laddove, come nel caso di specie, oltre ad esservi la mancanza di un obbligo generale di sorveglianza, non sia individuabile la conoscenza, in capo al provider Google, del dato sensibile contenuto nel video caricato dagli utenti.

Da apprezzarsi infine la sostanziale stringatezza della sentenza della Corte,  a fronte di molteplici pagine motivazionali della Corte di Appello (anche a fronte della assoluzione).

Che dire? Oltre sette anni per leggere quello che si sapeva già!

Il testo della sentenza

 

Redazione

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