Precariato creato ad arte, per avviare stabilizzazioni ed ottenere facili consensi

Luigi Oliveri 26/08/13
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Da diversi giorni i media segnalano l’allarme lanciato dai sindacati per il problema dei 150.000 precari delle amministrazioni pubbliche, i cui contratti scadranno (dopo due proroghe) il 31 dicembre del 2013.

Sul problema del precariato nella pubblica amministrazione, come è palese, si giocano partite estremamente delicate. I sindacati sanno che quando al Governo sale il centro sinistra, le possibilità di effettuare battaglie vittoriose per incrementare senza troppa fatica consenso (e probabilmente tessere) sono molto alte.

Appena 5 anni fa, col Governo Prodi in carica, vi fu l’apertura verso decine di migliaia di “precari”, stabilizzati nell’arco del successivo quadriennio, con strasichi ancora incredibilmente aperti.

Un lustro dopo, si torna ai blocchi di partenza. Eppure, nel frattempo, di strada ne è stata fatta e, soprattutto, sono state mutate le regole del reclutamento nelle amministrazioni pubbliche, al precisissimo scopo, da un lato, di chiudere l’esperienza delle stabilizzazioni (molto dubbia sul piano della legittimità costituzionale); dall’altro, di impedire alle amministrazioni pubbliche di effettuare assunzioni con contratti flessibili, per fare fronte ad esigenze lavorative stabili.

Allo scopo, le leggi 133/2008 e 102/2009 hanno modificato appositamente l’articolo 36 del d.lgs 165/2001, ponendo nei commi 1 e 2, due semplici precetti:

a)                           per le esigenze connesse con il proprio fabbisogno ordinario le pubbliche amministrazioni assumono esclusivamente con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato seguendo le procedure di reclutamento previste dall’articolo 35;

b)                          per rispondere ad esigenze temporanee ed eccezionali le amministrazioni pubbliche possono avvalersi delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, nel rispetto delle procedure di reclutamento vigenti.

Le sigle sindacali giustificano la battaglia che stanno intraprendendo per aprire una nuova stagione di stabilizzazioni essenzialmente con due argomentazioni: il pericolo rappresentato dalla possibilità di creare altri 150.000 disoccupati a breve; il rischio che servizi pubblici essenziali, presidiati dai precari, chiudano o divengano estremamente inefficienti.

La prima argomentazione convince solo in parte. I lavoratori del settore privato con contratti a termine in scadenza entro il 31.12.2013 e senza alcuna prospettiva di rinnovo sono certamente molti di più dei 150.000 lavoratori operanti nelle pubbliche amministrazioni. E’ curioso che per quella massa di precari non si levino voci così alte, da parte dei sindacati. O, forse, non è così strano. Le organizzazioni sindacali sanno perfettamente che il lavoro pubblico è un terreno di lotta sindacale abbastanza sereno, per non dire facile. Nel settore privato è impossibile pretendere la stabilizzazione di lavoratori flessibili, se l’impresa dimostra che realmente i fabbisogni lavorativi sono sorretti dalle cause giustificative rappresentate da esigenze produttive, organizzative, tecniche e sostitutive e, soprattutto, se i conti ed i bilanci indicano l’assenza di sostenibilità per assunzioni a tempo indeterminato.

Il datore di lavoro pubblico è visto sempre in altro modo. Innanzitutto, i sindacati sanno benissimo che spesso non è un interlocutore realmente seduto dall’altro lato del tavolo delle trattative. Sindacati e politica molte volte perseguono medesimi fini, in particolare il consenso. Una prospettiva di assunzioni nel settore pubblico di 150.000 persone fa gola sia ai sindacati, che possono sbandierarla come una propria vittoria, sia alla politica, che può sperare di incrementare consensi e voti. I sindacati lo sanno. E, dunque, col datore pubblico alzano la voce.

Non sarà un caso che le sigle sindacali abbiano alzato il tiro all’indomani della proroga fino al 31 dicembre 2014 del congelamento delle retribuzioni pubbliche. Non potendo contrattare sugli aspetti del trattamento economico, risultando, contestualmente, priva di interesse una contrattazione limitata ai soli aspetti giuridici del rapporto, una “merce di scambio” tra blocco dei contratti e pace sindacale può certamente essere l’avvio di nuove stabilizzazioni. E, da quanto si vede, il Governo pare seriamente intenzionato a concederle.

Sul piatto della bilancia, del resto, c’è ancora la “spending review” (sia pure all’italiana). Gli effetti sul lavoro pubblico di quella avviata da Monti, seguendo i suggerimenti di Bondi, a un anno di distanza sono risultati totalmente nulli. Nelle amministrazioni dello Stato si è giunti a stimare una quantità di esuberi di 8000 dipendenti circa; per regioni ed enti locali non è mai stato adottato il Dpcm che avrebbe dovuto indicare i criteri in base ai quali detti enti si sarebbero dovuti attenere per individuare eventuali esuberi.

Nemmeno casuale appare, ora, il nuovo dato che viene stimato da Palazzo Vidoni, secondo il quale con la “nuova” spending review e l’estensione anche a regioni ed enti locali della stretta sulle dotazioni organiche, gli esuberi nella pubblica amministrazione sarebbero circa 108.000: una cifra molto vicina a quella dei “precari”. Considerando che i dipendenti delle province (che il Governo al di là di ogni logica ed in conflitto con la Corte costituzionale insiste nel voler abolire) sono 56 mila circa, i conti tornano. Si potrebbe verificare una sorta di colossale scambio tra lavoratori di ruolo e dipendenti “precari”.

Del resto, solo una manovra di questo tipo potrebbe rendere sostenibile la nuova stabilizzazione. 150.000 precari, al costo medio lordo di 34.000 euro all’anno per ogni dipendente pubblico, significa una spesa di 5,1 miliardi. Non si dica che non è una nuova spesa, perché i precari già lavorano: sarebbe una spesa nuova eccome, perché oggi è a termine, domani, dopo l’eventuale stabilizzazione, diverrebbe strutturale e continuativa. Dunque, se un numero simile di lavoratori viene lasciato a casa, si ottengono quei risparmi che consentirebbero l’accollo di una nuova spesa pubblica altrimenti ingiustificabile.

C’è, tuttavia, la seconda argomentazione mossa dai sindacati e accettata molto di buon grado, soprattutto dai comuni: il rischio che i servizi pubblici possano risentire dell’improvvisa mancanza dei 150.000 lavoratori.

E’ un’argomentazione palesemente falsa e, comunque, insostenibile. Insostenibile perché se davvero i precari oggi in servizio fossero addetti ad assicurare servizi indispensabili per i cittadini, impossibili da gestire senza di loro, allora, i 2 precetti visti prima dell’articolo 36 del d.lgs 165/2001 sarebbero stati platealmente ed insanabilmente violati. Infatti, i datori di lavoro pubblici avrebbero assunto con contratti flessibili, ma per far fronte a fabbisogni stabili, esattamente il contrario di quanto impone la legge.

Non conviene a sindacati e Governo ricordarsi di quanto dispone il comma 5 dell’articolo 36 citato: “In ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione. Il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative. Le amministrazioni hanno l’obbligo di recuperare le somme pagate a tale titolo nei confronti dei dirigenti responsabili, qualora la violazione sia dovuta a dolo o colpa grave. I dirigenti che operano in violazione delle disposizioni del presente articolo sono responsabili anche ai sensi dell’articolo 21 del presente decreto. Di tali violazioni si terrà conto in sede di valutazione dell’operato del dirigente ai sensi dell’articolo 5 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 286”.

Le previsioni dei commi 1 e 2 dell’articolo 36 non possono che considerarsi “imperative”, poiché contengono obblighi concreti. Pertanto, per assunzioni flessibili a fronte di esigenze, invece, continuative, dovrebbero scattare le due conseguenze previste dal comma 5:

a)      l’impossibilità di costituire rapporti di lavoro a tempo indeterminato;

b)      le sanzioni nei confronti dei dirigenti che compiano le assunzioni illegittime.

E’ evidente che dell’articolo 36, comma 5, si privilegi una lettura secondo la quale il divieto di costituire rapporti di lavoro a tempo indeterminato sia rivolto, in particolare, alla sfera processuale, sicchè ai giudici del lavoro è impedito di assicurare ai dipendenti flessibili del lavoro pubblico la “tutela reale”, consistente appunto nell’accertamento della costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato ab origine, nel caso di violazioni in particolare delle cause giustificative dei rapporti di lavoro e dell’inanellamento di lavori flessibili.

Tuttavia, l’articolo 36, comma 5, del d.lgs 165/2001, come si nota, non è norma processuale, ma sostanziale. Il divieto di convertire in qualsiasi modo rapporti flessibili illegittimamente costituiti opera anche sul piano sostanziale. La norma, cioè, tende ad evitare che si possa innescare il fenomeno esiziale della costituzione “ad arte” di rapporti a termine, per poi giustificarne come inevitabile la conversione i rapporti a tempo indeterminato.

E, invece, le stabilizzazioni sono esattamente il fenomeno che il legislatore vorrebbe evitare. Esattamente all’opposto di applicare in maniera rigorosa le norme, invece di sanzionare quegli enti e quei dirigenti che hanno assunto con contratti flessibili simulati, si finisce per sanare le illegalità e premiare comportamenti contrari alle leggi.

Se, invece, i 150.000 precari fossero stati assunti per fare correttamente fronte ad esigenze flessibili, il problema semplicemente non si porrebbe. Allo scadere dei contratti, non vi sarebbe alcuna “emergenza” lavorativa, semplicemente si rispetterebbe la clausola accessoria del contratto di lavoro, l’apposizione del termine.

Il legislatore, in effetti, ha contribuito attivamente a creare “ad arte” questo nuovo fenomeno di precariato, commettendo un errore imperdonabile: la proroga della durata dei contratti ex lege.

Se le amministrazioni avessero avuto modo ed opportunità di giustificare nuove e diverse esigenze tali da richiedere l’ulteriore impiego di lavoratori flessibili, non vi sarebbe stata necessità alcuna di proroga. Infatti, a ciascun ente sarebbe stato sufficiente bandire un concorso e, così, reclutare il personale necessario.

Ai lavoratori “precari” già in servizio non sarebbe stato possibile precludere la partecipazione al concorso a causa dello svolgimento di un periodo lavorativo di parecchi mesi, che, eventualmente portasse a superare la durata massima complessiva di 36 mesi. Come sempre sostenuto da chi scrive e come sottolineato dalla Funzione Pubblica (parere prot. DFP n. 38845 del 28 settembre 2012) “occorre precisare che il superamento di un nuovo concorso pubblico a tempo determinato da parte del soggetto che ha già avuto un rapporto di lavoro a termine con l’amministrazione consente di azzerare la durata del contratto precedente ai fini del computo del limite massimo dei 36 mesi previsto dal d.lgs. 368/2001, nonché la non applicabilità degli intervalli temporali in caso di successione di contratti.

Conseguentemente, l’amministrazione può stipulare un contratto di lavoro a tempo determinato con il soggetto utilmente collocato nella graduatoria del concorso anche laddove l’interessato abbia già avuto contratti a termine con la stessa amministrazione, ancorché di durata complessiva corrispondente ai 36 mesi, e pure nel caso in cui tra i successivi contratti non sia ancora trascorso l’intervallo temporale previsto dalla disciplina normativa. Quanto detto, innanzitutto a garanzia degli articoli 51 e 97 della Costituzione, rispettivamente sul libero accesso ai pubblici impieghi e sul principio del concorso. In particolar modo, dall’articolo 51 della Costituzione si desume il divieto di escludere un candidato, in possesso dei requisiti indicati nel bando, dalla partecipazione al concorso; maggiormente infondato sarebbe il diniego dell’assunzione del vincitore utilmente collocato in graduatoria a seguito del superamento del concorso.

Diverso sarebbe il caso in cui l’Ente intendesse stipulare un nuovo contratto a termine con il medesimo lavoratore utilizzando la graduatoria già impiegata per la sottoscrizione del primo contratto. Si tratta, cioè, del caso in cui il successivo contratto a tempo determinato venisse stipulato sulla base della medesima graduatoria di concorso.

In detta ipotesi, mancando il presupposto del superamento di un nuovo concorso, la riassunzione dovrà necessariamente avvenire nel rispetto degli intervalli di tempo a tal fine previsti dal d.lgs. 368/2001, così come modificati dalla legge 92/2012”.

Le proroghe consentite dal legislatore si sono fondate, evidentemente, sull’erroneo convincimento che il compimento dei 36 mesi impedisse ai precari di partecipare ai concorsi. In ogni caso, non erano per nulla necessarie, ma soprattutto hanno finito per condurre i lavoratori interessati nella trappola della ripetitività del lavoro a termine nella pubblica amministrazione, che, innescando in loro il convincimento di riuscire ad ottenere una stabilizzazione prima o poi, li disincentiva totalmente sia dal cercare attivamente lavoro in altri settori, sia a partecipare a concorsi a tempo indeterminato nel settore pubblico. L’aspettativa alla stabilizzazione diviene, inconsciamente, una pretesa, ovviamente rafforzata dalle pulsioni sempre presenti e sempre fortissime, sia da parte dei sindacati, sia da parte della politica, verso le stabilizzazioni.

Si creano, dunque, nel mercato del lavoro disparità fortissime, davvero difficili da accettare. I precari “pubblici” ricevono molte più attenzioni di quelli “privati” ed hanno prospettive di ottenere contratti a tempo indeterminato certamente molto superiori; dipendenti “pubblici” in servizio sono presi di mira, per consentire un “ricambio”, che non è affatto vero, come si afferma, garantirebbe un ringiovanimento delle file della pubblica amministrazione: l’età media dei “precari” pubblici non è affatto giovane, ma in linea con quella già esistente; i “precari” pubblici ottengono, nuovamente, un percorso “privilegiato” di ingresso nella pubblica amministrazione. Nonostante avessero consapevolmente partecipato a selezioni per posti di lavoro a termine, trovano chi li sorregge nella pretesa per la trasformazione del rapporto in lavoro a tempo indeterminato, mediante procedure riservate, che di selettivo hanno pochissimo: sono solo la formalità per una trasformazione di fatto del rapporto di lavoro, con buona pace di chi, invece, si prepara per partecipare e superare concorsi sin dall’inizio per posti di lavoro a tempo indeterminato.

Ovvio che una seconda ondata di stabilizzazioni a pochissima distanza da quella già attivata tra il 2007 e il 2008, ingenera in chiunque la convinzione che sia sufficiente mettere un piede nelle amministrazioni pubbliche, con un qualsiasi contratto flessibile, per ottenere poi in premio la stabilizzazione. Le amministrazioni, dal canto loro, non hanno alcuna ragione per programmare seriamente le assunzioni, organizzare il lavoro in modo da garantire realmente che siano i dipendenti di ruolo ad assicurare i servizi essenziali, mentre i lavoratori flessibili debbono essere addetti solo ad esigenze limitate nel tempo ed eccezionali.

Si creerebbe, si creerà, una spirale perversa, che dopo pochi anni porterà nuovamente ad urlare alla necessità di stabilizzazioni, in barba a qualsiasi disposizione costituzionale e normativa in tema di reclutamento, concorsi, programmazione del costo del lavoro, valutazione, responsabilità.

Luigi Oliveri

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