Il nodo spinoso dell’abolizione delle province: tra scelte di metodo e i “non detti” della corte costituzionale

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Venerdì 19 luglio 2013 sono state depositate le motivazioni della sentenza n. 220/2013 della Corte costituzionale, con la quale è stata dichiarata illegittima, e quindi annullata, la disciplina normativa in materia di riordino delle Province e di trasformazione delle stesse in enti locali territoriali con rappresentanza politica di secondo livello. Parallelamente alla declaratoria d’incostituzionalità, il Governo Letta ha presentato un disegno di legge costituzionale, volto a cancellare il termine Province in tutti gli articoli della Carta in cui esso compare. Mi sembra una soluzione semplicistica, poco ragionata, a dimostrazione di come il tema dell’abolizione delle Province sia più il portato di una scelta retorica e populista, che il frutto di un ragionamento serio che dovrebbe coinvolgere il sistema delle autonomie locali tout court. In primo luogo, non si capiscono i motivi per cui, dato l’impatto della proposta governativa sul Titolo V della Carta, non si sia preferito affidarne il compito ai saggi, chiamati a formulare, entro il mese di ottobre, un progetto di modifica della forma di governo nella quale il nodo degli enti locali è di fondamentale importanza. Certo, sul piano giuridico il Governo rimane sempre titolare del potere d’iniziativa legislativa, ma quello che qui rileva è un aspetto politico e non tecnico: proprio perché l’obiettivo è quello di una riforma della Parte II della Costituzione, sulla quale le diverse forze politiche dovrebbero trovare la maggiore convergenza, sarebbe stato opportuno evitare un percorso separato per le Province.

In secondo luogo, non si può sorvolare su un’affermazione “sibillina” della Corte costituzionale contenuta nella recente sentenza n. 220/2013. Il giudice delle leggi, infatti, escludendo che quanto dedotto nella sentenza faccia pervenire “alla conclusione che sull’ordinamento degli enti locali si possa intervenire solo con legge costituzionale, indispensabile solo se s’intenda sopprimere uno degli enti previsti dall’art. 114 Cost., o comunque si voglia togliere allo stesso la garanzia costituzionale”, di fatto pare indicare al legislatore statale la via maestra per cancellare definitivamente dall’ordinamento l’ente Provincia.

Ma è qui, forse, che si nascondono i maggiori problemi. Se, da un lato, la legge di revisione costituzionale ha una strada certamente in discesa rispetto alla soluzione di riordino/riduzione avanzata dal Governo Monti, dall’altro deve fare i conti con il riconoscimento e la promozione delle autonomie locali di cui all’art. 5 Cost. che, come insegnano i manuali di Diritto Costituzionale, rappresenta la chiave di lettura e d’ispirazione di tutto il Titolo V. Ci si potrebbe chiedere, a riguardo, se la norma dell’art. 5, principio supremo dell’ordinamento e come tale limite anche per una legge di revisione della Carta, possa inibire iniziative di soppressione, oppure se postuli almeno il mantenimento di un ente di livello intermedio eleggibile direttamente da parte del corpo elettorale. Due le ragioni a sostegno di una risposta negativa alla domanda. La prima consiste nel significato della parola promozione che, l’ha scritto molto bene la Regione Molise nel suo ricorso, è “l’antitesi del sopprimere”; la seconda concerne la natura stessa del riconoscimento delle autonomie locali, che costituisce un modo d’essere della stessa Repubblica, necessario per lo sviluppo delle comunità locali. Il legislatore costituzionale, quindi, in virtù del carattere originario delle medesime, non potrebbe sopprimerle con un atto d’imperio, ma solo introdurre entificazioni nuove e diverse, com’è avvenuto con le Città metropolitane nel 2001, a seconda dei mutamenti sociali e politici.

Daniele Trabucco

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