Abolizione finanziamento pubblico ai partiti, balle spaziali del governo

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In principio, sono state approvate le linee guida generali. Poi, a distanza di una settimana, si è passati, non senza tribolazioni, alla stesura di un disegno di legge, che dunque dovrà ancora essere discusso in Parlamento, dove si sancisce solennemente all’articolo 1: “E’ abolito il finanziamento pubblico ai partiti”.

In questi termini, il provvedimento varato dal Consiglio dei ministri lo scorso venerdì assume i caratteri perentori di un’abrogazione de iure che non ammette interpretazioni, finalmente a concretizzare l’esito del referendum del 1993, quando la stragrande maggioranza degli italiani scelse di dire basta alle sovvenzioni di Stato ai forzieri dei partiti. Un plebiscito che, però, come noto non ha trovato riscontro nei fatti, dal momento che il denaro pompato nelle casse delle forze politiche ha assunto le connotati di un rimborso elettorale, poi, nei fatti, rivelatosi ben più sostanzioso delle mere spese sostenute per guadagnare il consenso dell’opinione pubblica.

Punto e a capo, dunque. Ma sull’onda della protesta montante e della diffidenza verso la politica, un segnale forte, in questi mesi difficili, doveva essere lanciato. Ne è ben consapevole prima di tutti il premier Enrico Letta, che ha messo l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti tra i punti principali della sua azione di governo. Ecco, dunque, il tanto atteso disegno di legge che sancisce la fine dell’era della paghetta di Stato ai partiti politici. O forse no?

Innanzitutto, va sottolineato che la tanto sbandierata abolizione avrà effetto solo dal 2017, con quattro anni durante i quali potrebbe succedere di tutto, anche il ritorno della legge vigente fino a pochi giorni fa per mezzo di qualche capriola legislativa. Ma anche quella presentata dal presidente del Consiglio venerdì non è certo una spending review in salsa montiana per le forze politiche. Tanto per cominciare, le contribuzioni messe a bilancio per l’ultima tornata elettorale resteranno invariate, con i soli 42 milioni cui ha rinunciato il MoVimento 5 Stelle che dovrebbero tornare al mittente.

Da notare, comunque, che quando i sacrifici riguardano certi soggetti, i tempi richiesti sono sempre molto lunghi, mentre, in passato e anche oggi, quando c’è da usare il bastone verso i contribuenti, le decisioni vengono prese anche in poche ore. Chi non ricorda, infatti, il prelievo dai conti correnti designato da Giuliano Amato nel 1992, che il suo governo decise nella notte tra il 9 e 10 luglio 1992 e, si è venuto a scoprire di recente, a seguito di un’equivoco tra premier e ministri? Tra l’altro, va ricordato che lo stesso Giuliano Amato ha trascorso l’ultimo anno come commissario per la spending review dei partiti, un incarico che ha prodotto il vuoto cosmico alla voce  “risultati concreti”.

Tornando al ddl di fresca presentazione, per conservare una sorta di cordone ombelicale tra le istituzioni e i partiti, il governo ha architettato un sistema che consentirà di ridurre progressivamente le risorse destinate alle sigle politiche, salvo, però, acconsentire ad ulteriori benefit sanciti per legge, tra i quali spicca l’escamotage del 2 per mille. Nello specifico, l’ultimo ddl di abolizione del finanziamento pubblico prevede, infatti, che a partire dal 2015 i privati possano decidere di destinare ai partiti il 2 per mille della propria imposta sul reddito. In teoria, questa scelta dovrebbe favorire la linea dei contributori volontari, che diverse proposte di legge negli ultimi tempi hanno cercato di introdurre come surrogato al sistema vigente di elargizione pubblica. In realtà, però, all’articolo 4 si legge che “in caso di scelte non espresse, la quota di risorse disopnibili…è destinata ai partiti ovvero all’erario in proporzione delle scelte espresse”. In sostanza, viene varato il fratello minore dell’8 per mille destinato alle varie confessioni religiose: in caso di mancata indicazione, le risorse finiranno ugualmente nei fondi destinati ai partiti. A calmierare le quote, dovrebbe poi intervenire un decreto del Tesoro per stabilire il tetto alle uscite statali.

Non manca chi storce il naso di fronte a queste trovate da azzeccagarbugli, poiché secondo i primi calcoli, nelle casse dei partiti dovrebbero comunque finire svariate decine di milioni di euro, anche se, per assurdo, le somme effettivamente destinate dai contribuenti alle tesorerie ammontassero appena a un decimo, o anche meno.

Tra le ulteriori agevolazioni previste dal ddl, si incappa anche nella possibilità di ripartizione di spazi pubblicitari sulle reti pubbliche per gli spot elettorali – un modello già in vigore in Inghilterra con la Bbc, dove però il servizio pubblico non dipende dallo spoil system tra i partiti che avviene regolarmente in Italia da decenni – e una serie di detrazioni per le erogazioni liberali, pari al 52% entro i 5mila euro, e del 26% entro i 20mila.

Insomma, va bene la logica dell’annuncio a effetto: ma mettere al primo punto di un disegno di legge un’affermazione forte, e giuridicamente rilevante, come “E’ abolito il finanziamento pubblico dei partiti” richiede che, poi, nelle sostanza l’atto in questione ne ricalchi gli intenti. Altrimenti, come scrive stamane Luca Ricolfi su La Stampa il sospetto è lecito: “Abolire vuol dire abolire, se proprio non riuscite ad avere rispetto per noi, abbiatene almeno per la lingua italiana”.

Vai allo speciale abolizione del finanziamento pubblico ai partiti

Vai al testo del ddl presentato dal governo Letta

Francesco Maltoni

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