Divieto monetizzabilità delle ferie, ancora troppi dubbi

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Fa sempre piacere trovare conforto delle proprie argomentazioni, specie se in sede istituzionale da parte di chi nel settore opera e al cui vertice siede.

Il tema della impossibilità di monetizzare le ferie era stato in queste pagine trattato nei primi giorni di vigenza del decreto spending review, in sede di commento dell’art. 5 comma 8, che, come si riporta sintetizzando, disponeva:

8. Le ferie, i riposi ed i permessi spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche … sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi. La presente disposizione si applica anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobilita’, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite di eta’. Eventuali disposizioni normative e contrattuali piu’ favorevoli cessano di avere applicazione a decorrere dall’entrata in vigore del presente decreto. La violazione della presente disposizione, oltre a comportare il recupero delle somme indebitamente erogate, e’ fonte di responsabilita’ disciplinare ed amministrativa per il dirigente responsabile.

Si era notato come il divieto di monetizzare le ferie, disposto a sfavore solo dei pubblici dipendenti a prescindere da qualsiasi motivo l’impossibilità di fruizione dipendesse, fosse non solo eccessivo nel merito, ma contrastante con principi costituzionali e di derivazione comunitaria, ribaditi peraltro dalla suprema magistratura amministrativa e finanche dalla Corte di Cassazione con una recentissima pronuncia.

Questi rilievi hanno trovato conforto interpretativo, in gran parte, nelparere reso dal Dipartimento Funzione Pubblica pochi giorni fa, a proposito della richiesta di parere formulata da una grande Azienda Ospedaliera romana.

Il parere circoscrive in maniera significativa la portata della norma, arrivando nelle conclusioni a suggerire che “…a regime, nel divieto posto dal comma 8 dell’art. 5 del citato d.l. 95 del 2012 non rientrano i casi di cessazione del servizio in cui l’impossibilità di fruire delle ferie non è imputabile o riconducibile al dipendente, come le ipotesi di decesso, malattia e infortunio, risoluzione del rapporto di lavoro per inidoneità permanente ed assoluta, congedo obbligatorio per maternità”.

Il parere nella pratica distingue due ipotesi:

a) quella riguardante vicende estintive in cui “il lavoratore concorre in modo attivo alla conclusione del rapporto di lavoro, mediante il compimento di atti (es. esercizio del proprio diritto di recesso) o comportamenti incompatibili con la permanenza del rapporto (licenziamento disciplinare, mancato superamento del periodo di prova), accettando così le eventuali conseguenze derivanti, come per l’appunto la perdita delle ferie maturate e non godute come prevista dalla normativa vigente”, le quali ipotesi corrisponderebbero alla ratio della norma;

b) quella riguardante vicende estintive dovute ad eventi indipendenti dalla volontà del lavoratore e dalla capacità organizzativa del datore di lavoro, come, si citano a titolo di esempio, la malattia e l’infortunio, la dispensa dal servizio, il decesso, la risoluzione del rapporto di lavoro per inidoneità fisica permanente ed assoluta, il congedo obbligatorio per maternità.

Nel tentativo (conformemente ai dubbi sollevati sulla portata del divieto) di mitigare la portata della disposizione, si apre la strada ad ulteriori problemi interpretativi, principalmente per gli uffici del personale che si trovano, materialmente, ad applicare la discussa normativa.

E’ infatti palese che la portata della disposizione di legge è inequivoca: si escludono tutti i casi di monetizzazione delle ferie, per qualsiasi motivo, anche se disposta da disposizioni di legge o contrattuali e “anche” nei casi (si aggiungono specificamente) di mobilita’, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite di eta’.

Il tenore della disposizione normativa viene irrigidito anche dalla (consueta) indicazione finale, che richiama il dirigente inottemperante alla responsabilità disciplinare ed amministrativa.

Il parere della Funzione Pubblica, pur reso istituzionalmente, non è certo assimilabile ad un atto avente forza di legge come quello che si interpreta. Sul valore da attribuire nella gerarchia delle fonti alle direttive, alle circolari, ai pareri (addirittura alle FAQ!) emanati negli ultimi anni in maniera spropositata, si sono succedute numerose interpretazioni dottrinali tese a confutare la valenza di fonti del diritto appunto delle circolari, dei pareri e delle note interne. La Cassazione esplicitamente, a proposito delle circolari dell’amministrazione tributaria, ha più volte negato che le stesse siano fonti del diritto (ad esempio si vedano le sentenze 6056/2011 e 23031/2007).

Lo stesso tenore del parere, espresso usando molto spesso il prudente tempo condizionale e auspicando infine un intervento “necessario” del Ministero Economia e Finanze, è improntato all’estrema cautela.

Cautela che non usano i termini usati dal legislatore, ripetiamo inequivoci, come inequivoca è l’indicazione delle sanzioni per ogni inadempienza. Nei panni del funzionario scrupoloso, viste le pesanti sanzioni minacciate, non sarebbe plausibile la strada dell’applicazione della legge piuttosto che del parere reso in sede interpretativa con le cautele indicate?

Ancora, ed entrando nello specifico: nel caso di preavviso e del recesso, si possono programmare le ferie pregresse, quelle appunto “maturate”, ma non quelle future, che maturano nel periodo di preavviso ma non posso fruirsi per espresso divieto del codice civile (art. 2109, ripreso da varie disposizioni contrattuali di comparto), ferie che vanno necessariamente retribuite per espressa indicazione ARAN del febbraio 2012.

Su questo importante punto il parere non si esprime, poiché si accenna alle conseguenze derivanti, come per l’appunto la perdita delle ferie maturate e non godute come prevista dalla normativa vigente; nulla si dice di quelle che si devono maturare ancora ma non si possono fruire, come quella riguardanti il periodo di preavviso.

In questo caso, il datore di lavoro deve disattendere il dettato civilistico, oppure la prescrizione del decreto 95 o ancora negare qualsiasi maturazione o monetizzazione e stravolgere il dettato costituzionale?

Infine, è problematico individuare come cause comportanti il divieto di monetizzazione quelle imputabili alla volontà del lavoratore: se il recesso e le dimissioni sono “colpa” dello stesso, non potrebbe esserlo forse l’inabilità permanente (considerata invece causa non imputabile) se, per esempio, fosse causata da un incidente che veda il lavoratore colpevole dei danni a se stesso occorsi?

Lo stesso concetto di responsabilità del lavoratore per le conseguenze delle proprie azioni volontarie difficilmente può utilizzarsi come argomento per violare un diritto costituzionale, quale quello alla maturazione delle ferie.

La secca formulazione della disposizione che vieta la monetizzabilità delle ferie è stata approvata da un Governo “tecnico” dopo, si suppone ed auspica, attenta valutazione, e confermata da una legge di conversione del Parlamento.

Le conseguenze gravose che l’applicazione letterale comporta si auspica possano comporsi con una adeguata riforma legislativa, rimanendo altrimenti la sede contenziosa.

 

Francesca Ciangola

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