Per l’avvocato, il negozio no

Renato Savoia 27/08/12
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Le Sezioni Unite, con la sentenza 14368 del 10 agosto 2012, nel rigettare il ricorso presentato avverso la decisione del Consiglio Nazionale Forense 93/11, ha confermato la sanzione della censura inflitta dal consiglio dell’Ordine degli avvocati di Varese nei confronti di un avvocato cui è stato contestato:

1) di aver utilizzato le espressioni “L’angolo dei diritti” e “negozio” (quest’ultima eliminata nel corso del procedimento), aventi carattere prettamente commerciale e in quanto tali contrastanti con il decoro;

2) di aver offerto al pubblico prestazioni professionali, anche di natura giudiziale, a costo fisso e non proporzionato all’attività svolta;

3) aver rilasciato interviste utilizzando espressioni che davano della categoria forense un’immagine negativa;

4) aver omesso sul sito internet l’indicazione di alcuni dei requisiti obbligatori previsti dall’art. 17-bis del codice deontologico;

5) aver violato il dovere di verità avendo indicato come collaboratori colleghi che in realtà non collaboravano affatto.

Quel che interessa è la parte relativa alla “pubblicizzazione” dell’atttività.

Non c’è dubbio che nel corso degli ultimi anni sia uno dei (molti) nervi scoperti dell’avvocatura, quello della pubblicità per gli avvocati e degli strumenti di marketing (in senso lato) utilizzati dagli avvocati.

Se la posizione ufficiale, del C.N.F. e degli ordini territoriali in testa, è improntata ad un tendenziale rifiuto di modalità e strumenti “moderni”, non v’è dubbio che affiorano sempre di più segni di insofferenza per questa rigidità da parte degli avvocati stessi.

Per non dire degli interventi legislativi, che certo non brillano per rigore sistematico inseriti spesso in provvedimenti di tutt’altra natura, a partire dal cd. Decreto Bersani (d.l. 223/06).

E lo stupore che si legge in chi avvocato non è quando viene a conoscenza dei limiti alla pubblicità (ricordo che si parla, per gli avvocati, di “pubblicità informativa”, quando tale definizione viene contestata da chi ritiene, e modestamente sono d’accordo, che si tratti di “un ossimoro: la pubblicità è promozione, non informazione“).

invece che soffermarmi sui motivi per i quali è stato sanzionato il Collega, mi pare però più interessante far affiorare gli aspetti propositivi, sia del C.N.F. che delle Sezioni Unite.

Per esempio il fatto che non sia stato censurato di per sè “l’esercizio della professione in ambiente e luogo diverso dalla tradizione o con inusuali modalità comunicative” e il riconoscimento che “la localizzazione dello studio non comporta neppure una violazione della riservatezza dell’utente o della dignità professionale dei legali che operano nello studio“.

Ancora, l’affermazione, di ampio respiro, per cui “gli aspetti inconsueti ed “originali” di pubblicizzazione dell’attività professionale forense adottati nella specie non collidono, di per sè, con la deontologia professionale, purchè contenuti nei limiti imposti dai generali canoni della dignità, del decoro e della correttezza della professione“.

Quindi, in realtà, non è stata del tutto chiusa la porta a modalità dello svolgimento della professione che siano anche diverse a quelle storicamente note: il tutto sta però nel mantenersi all’interno dei confini dei canoni predetti.

E il problema a questo punto si posta evidentemente su un altro piano.

Come definire, infatti, decoro, dignità e correttezza?

Si tratta, evidentemente, di espressioni relative ad un “sentire” e in quanto tali dal contenuto mutevole con il variare dei tempi.

Per fare un esempio che è immediatamente chiaro anche ai non giuristi, si pensi all’evoluzione del concetto di “buon costume” nel corso degli anni.

Ebbene, lo stesso può dirsi, per qualsiasi altro concetto generale.

Per quanto mi riguarda vedo un pericolo, insito nel continuare a riferirsi a categorie generali: ovvero che a seconda dell’”imputato” si utilizzino definizioni differenti.

E’ sotto gli occhi di tutti, inutile nasconderselo, il fatto che ad avvocati “famosi” siano da sempre permesse modalità espressive che ad un Carneade qualunque verrebbero contestate.

Forse, a questo punto, allora sarebbe più equo eliminare tutti i riferimenti a concetti non ben definiti, e vietare comportamenti specifici (ad esempio: è vietato nominare i clienti).

Il dibattito, naturalmente, è aperto.

Renato Savoia

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