Morti sul lavoro: chi il responsabile?

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Tizio perde la vita a causa di un infortunio sul lavoro: nello svolgimento delle sue mansioni, alle dipendenze di Caio, rimane folgorato nel tentativo di operare un collegamento tra la betoniera (presente nel cantiere) e il cavo di alimentazione, con la corrente in tensione.

Il Tribunale di primo grado, competente, dichiara la responsabilità del datore di lavoro per l’infortunio mortale occorso al suo dipendente Tizio.

A seguire, la Corte d’appello, chiamata a pronunciarsi, riconosce una responsabilità di tipo concorrente tra datore di lavoro e lavoratore. Caio decide, così, di proporre successivo ricorso in Cassazione: Corte che conferma la sentenza emessa in secondo grado e, pertanto, rigetta il ricorso.

In tema di responsabilità civile, il referente normativo del nesso di causalità va individuato nelle disposizioni del codice penale, ex artt. 40 e 41 c.p.. Ad ogni modo, appare chiaro che la causalità civile è diversa da quella penale perché è diverso il sistema e la ratio che lo anima, perché sono diverse le regole che governano la prova e perché soprattutto sono diversi i beni tutelati. ‘’Ciò che muta sostanzialmente tra il processo penale e quello civile è la regola probatoria in quanto nel primo vige la regola della prova oltre il ragionevole dubbio, mentre nel secondo vige la regola del più probabile che non’’ (Cass., Sez. Unite, 11 gennaio 2008, nr. 581, 582 e 584).

Ebbene, con la nozione di causalità si intende ‘’l’insieme delle condizioni pratico-fattuali antecedenti, sotto il profilo spazio-temporale, ad un determinato evento naturalistico ed allo stesso ricollegate in base ad una ‘’uniformità regolare’’ (…). Il nesso di causalità si inquadra nell’ambito dell’elemento oggettivo, costituendo il fondamentale collegamento tra la condotta e l’evento ed integrando ‘’l’imputazione oggettiva del fatto al soggetto agente’’. ‘’Occorre, cioè, che l’evento concreto si possa riconnettere alla condotta di un determinato soggetto, in modo che possa essergli attribuita la responsabilità di averlo procurato!’’. In tal senso: ‘’nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipenda l’esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione (…)’’, ex art. 40 c.p.. In combinato disposto, l’art. 41.2 c.p. afferma che: ‘’Le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento (…)’’. Più specificatamente, l’istituto del concorso di cause, disciplinato dall’articolo appena menzionato, stabilisce ‘’una presunzione di pari valenza nel concorso di una pluralità di cause che appaiono idonee a produrre l’evento; tale presunzione viene vinta solo dalla dimostrazione che ‘una di esse sia stata da sola idonea a far realizzare l’evento, si da far degradare le altre cause a mere occasioni dell’evento, senza alcuna propria autonoma efficienza’’.

Quest’ultima è una norma di fondamentale importanza all’interno dell’assetto normativo che il codice ha inteso attribuire al tema della causalità, e lo scopo della disposizione, secondo l’orientamento prevalente, è quello di temperare il rigore derivante dalla meccanica applicazione del principio generale contenuto nel primo comma dell’art. 41 c.p.. Pertanto, perché possa parlarsi di causa sopravvenuta idonea ad escludere il rapporto di causalità, o la sua interruzione come altrimenti si dice, ‘’si deve trattare di un percorso causale ricollegato all’azione o omissione dell’agente ma completamente atipico, di carattere assolutamente anomalo ed eccezionale, di un evento che non si verifichi se non in casi del tutto imprevedibili a seguito della causa presupposta’’.

Quando si parla di infortunio sul lavoro e quindi di relativa condotta del lavoratore, si può dimostrare l’abnormità del comportamento del lavoratore infortunato e, quindi, si può provare che proprio l’abnormità abbia dato causa all’evento; questa caratteristica della condotta del lavoratore infortunato è idonea ad interrompere il nesso di causalità quale causa da sola sopravvenuta, da sola sufficiente a determinare l’evento in base al già ricordato art. 41.2 c.p.. Volgendo l’attenzione, parallelamente, alla condotta del datore di lavoro, è essenziale richiamare l’art. 2087 c.c., rubricato ‘’tutela delle condizioni di lavoro’’: ‘’il quale possiede una funzione sussidiaria ed integrativa delle misure protettive da adottare a garanzia del lavoratore, tale disposizione abbraccia ogni tipo di misura utile a tutelare il diritto soggettivo dei lavoratori ad operare in un ambiente esente da rischi’’ (v. Corte Costituzionale, sent, nr. 399 del 1996). Quest’ultima norma, di carattere generale, evidenzia che i datori di lavoro sono tenuti a ‘’proteggere’’ i lavoratori anche nei confronti di atti ‘’imprudenti’’ che i medesimi possono compiere nello svolgimento delle loro mansioni. Sul datore di lavoro, dunque, ‘’gravano sia il generale obbligo di neminem laedere, ex art. 2043 c.c. (responsabilità extracontrattuale), sia il più specifico obbligo di protezione dell’integrità psico-fisica del lavoratore, ex art. 2087 c.c. ad integrazione ex legge delle obbligazioni nascenti dal contratto di lavoro (responsabilità contrattuale)’’. L’art. 2087 c.c. ‘’ha il compito di supplire alle lacune di una normativa che non può prevedere ogni fattore di rischio ed ha, perciò, una funzione sussidiaria di adeguamento al caso concreto’’. Il Giudice delle Leggi ha, inoltre, affermato che non sono soltanto le norme costituzionali (artt. 32 e 41.2 Cost.) ad imporre ai datori di lavoro la massima attenzione per la protezione della salute e dell’integrità fisica dei lavoratori, in quanto numerose altre disposizioni, assumono in proposito valenza decisiva (…). E’ necessario che: ‘’chi si avvalga di una prestazione lavorativa, eseguita in stato di subordinazione, anteponga al proprio legittimo profitto la sicurezza di chi tale prestazione esegua, adottando ogni cautela che lo specifico contesto lavorativo richieda” (Cass., nr. 17314 del 2004).

Recentemente, la Corte di Cassazione (Cass. Civile, sentenza nr. 6337 del 2012) si è espressa sull’ennesimo infortunio sul lavoro affermando (nel caso di specie) che: ‘’l’attività che ha determinato l’infortunio mortale, cioè il tentativo di operare un collegamento diretto tra la betoniera ed il cavo di alimentazione, non rientra nelle mansioni del lavoratore, con qualifica di manovale generico’’. (Si delinea, così, una condotta del lavoratore che ‘’per certi versi’’ può apparire abnorme, arbitraria ed imprevedibile). A dire della Corte, però!, nel caso di specie, ‘’il datore di lavoro ha omesso la predisposizione di un interruttore differenziale, pure in mancanza di una specifica disposizione antinfortunistica in tal senso’’. Secondo la Corte, il ricorrente, datore di lavoro, ‘’avrebbe concorso al 50 per cento alla verificazione dell’infortunio mortale, in quanto lo stesso non ha adottato alcuna misura di prevenzione né specifica, né generica’’.

Insomma, il fenomeno infortunistico, oltre a produrre costi sociali, rileva principalmente per la sua dimensione umana. Il datore di lavoro è, e rimane, comunque, il titolare della posizione di garanzia poiché ha l’obbligo di effettuare, in primis, la valutazione dei rischi e di elaborare successivamente a tale analisi le misure di prevenzione e protezione ad hoc.

Ma ci si domanda: oggi, esiste in concreto un’adeguata e continua formazione sulla sicurezza? Esiste un costante controllo, super partes, su di essa? Solo incrementando un’adeguata e costante preparazione dei datori di lavoro si possono formare-istruire gli stessi lavoratori e, quindi, ridurre i rischi di infortuni. Dovrebbero essere costituiti dei Modelli di Organizzazione e di Gestione (MOG) ‘’esemplari, idonei e specifici’’ (contenenti una serie di precise azioni, regole, norme, direttive) e il datore di lavoro dovrebbe essere il reale artefice-educatore dei medesimi modelli.

…La vita e la salute, dei lavoratori, sono beni inestimabili!

Giovanna Cuccui

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