Il segretario comunale, riedizione moderna del mito di Atlante

Claudio Rossi 04/07/12
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In seguito all’intervento del collega Lo Destro a proposito del ruolo del Segretario comunale nell’ambito del DDL anticorruzione, vorrei rappresentare un punto di vista diverso rispetto alla vulgata corrente, perché i problemi sono spesso molto più complessi di come li si rappresenta nella forma stereotipata.

Il segretario resta – almeno nell’immaginario collettivo – un perno di garanzia fondamentale per l’amministrazione locale. La Corte dei Conti, con giurisprudenza tralatizia ma forse meno ponderata di quello che appare, lo qualifica enfaticamente “garante della legalità”.

Cerchiamo di vederlo – seppure sommariamente – più da vicino questo funzionario pubblico dalla natura incerta, incertissima e mai definita.

Anzi, se volessimo utilizzare il lessico che usa la giurisprudenza dovremmo parlare subito di una figura dal profilo professionale apertamente “dissociato”. In effetti, di “dissociazione” tra rapporto organico e rapporto di servizio parla esplicitamente, tra le tante, TAR Puglia, 17.10.1985, n. 385.

E’ dunque una oggettiva condizione di apolidia istituzionale che pesa maledettamente su questa figura, figlia spuria di un ordinamento che stenta a coordinare collocazione istituzionale ed attribuzioni funzionali di questa strana professione.

La riforma Bassanini del 1997 (L. 15.05.1997, n. 127) ha prefigurato, non senza contraddizioni, il segretario comunale come fiduciario del sindaco e della sua maggioranza, per questo sottoponendolo ad un insolito e costituzionalmente dubbio regime di spoil system. L’assetto vigente vuole che il capo dell’amministrazione scelga praticamente intuitu personae il segretario e che il questi resti legato al primo dalla regola ferrea: simul stabunt simul cadent.

Si tratta di connotazioni molto peculiari che certamente appaiono dissonanti con la pretesa della Corte dei conti di considerare il segretario “garante della legalità”. Di recente il procuratore della Corte dei Conti della Campania, a proposito della condizione dei segretari, non ha esitato a definirli “ostaggio dei sindaci”.

Come le due qualificazioni – “garante della legalità”, da una parte e “ostaggio dei sindaci”, dall’altra – possano ragionevolmente coesistere appare un mistero.

In realtà questa stridentissima contraddizione si alimenta di dati normativi altrettanto contraddittori. Usque tandem?

Si tratta di una condizione istituzionalmente, prima che professionalmente, insostenibile.

Possibile che dopo decenni e decenni e dopo la riforma del titolo V della Costituzione nessuno avverta la necessità di definire in maniera univoca chi è il segretario comunale, a chi appartiene e di chi è voce?

Siamo rimasti appesi alla soluzione “tampone” che nel 1969 la Corte Costituzionale ideò con la sentenza n. 52. Ma allora c’era ancora l’art. 128 della Costituzione, quello che “costringeva” l’autonomia locale “nell’ambito dei principi fissati da leggi generali della Repubblica”. Non c’era stata la ventata di rivendicazioni autonomistiche che si è registrata a partire dagli anni ’90 del secolo scorso e che è sfociata nella riforma della seconda parte della Costituzione.

Siamo ancora alla classica tesi di Giovenco di funzionari “dissociati” tra rapporto organico e rapporto di servizio.

Questa doppia appartenenza (o appartenenza “dissociata”, come diceva forse con involontario doppio senso il citato TAR Puglia) ha sempre alimentato tensioni molto forti tra il segretario e le autonomie locali, rispetto alle quali egli è stato sempre avvertito come un “corpo estraneo”, sia in termini giuridico- formali che sociologico-personali.

Ma se prima la PA era concepita – pur tra tante contraddizioni – come un continuum Stato, articolazioni periferiche dello Stato ed enti locali, oggi, e non da oggi, non è più così. A tacer d’altro, c’è stata proprio la riforma del titolo V della Costituzione!

Con la riforma Bassanini non solo non si è sciolta la peculiare contraddizione istituzionale che i segretari si portano addosso, come una maledizione secolare, ma è stata addirittura consacrata con atto di legge.

Per cui oggi i segretari:

– sono dipendenti dall’ex Agenzia autonoma (ora ministero dell’Interno, pastrocchio già questo) ai sensi dell’art. 97, comma 1, del TUEL;

e contemporaneamente ed ineffabilmente:

– sono dipendenti funzionalmente dal Capo dell’Amministrazione che li nomina ai sensi dell’art. 99, comma 1, dello stesso TUEL.

E’ una condizione di autentica follia istituzionale, incompatibile con l’evoluzione che ha subito la P.A. italiana. A tacer d’altro, ed il contenzioso – specie in materia previdenziale – lo dimostra, non si capisce mai bene quali regole generali valgano per i segretari, se quelle applicabili ai ministeriali o quelle proprie degli enti locali.

La spuria e peculiare collocazione del segretario crea, inoltre, tensioni non soltanto con la classe politica locale (come pacificamente è noto e si ammette come fatto quasi fisiologico) ma anche e più sottilmente con la classe burocratica dei comuni, chiamata (forse troppo frettolosamente e senza alcuna forma di previa riqualificazione professionale) alla responsabilità diretta della fase “gestionale” degli enti.

Anche sotto questo punto di vista il segretario – estraneo, di norma, sia all’organizzazione-burocratica che al tessuto sociale locale – rischia di risultare un vaso di coccio stritolabile tra parte politica (non solo di maggioranza ma anche di minoranza, che sempre più strattona per la giacca il segretario in assenza di altri organi amministrativi posti a tutela della legittimità degli atti) e parte burocratica che mal tollera di annoverare comunque nel suo contesto un soggetto che ha altra estrazione, altra formazione, diversa disciplina ed altre prospettive di carriera.

Una maledizione di carattere quasi sacrale sembra abbattersi, quindi, sui segretari chiamati a contravvenire al monito evangelico: “Nemo servus potest duobus dominis servire”.

Questa profonda contraddizione è resa giuridicamente parossistica dall’esistenza dell’art. 6, comma 1, della L. 439/1989, e del comma 6, secondo periodo, dell’art. 117 della Costituzione, che attribuiscono alle comunità locali il potere di autorganizzarsi e, in special modo, di “definire esse stesse le strutture amministrative interne di cui intendono dotarsi, per adeguarle alle loro esigenze specifiche in modo tale da consentire un’amministrazione efficace”.

In sostanza, non si comprende neppure bene – alla stregua di questi inoppugnabili riferimenti normativi – come lo Stato possa imporre ab extra agli enti locali una figura professionale specifica. Tanto più, come spesso accade, se al segretario si affidano funzioni tipicamente locali, come quelle in larga parte previste dall’art. 97 del TUEL (D.lgs. 18.08.2000, n. 267) e soprattutto quelle eventuali previste dal comma 4, lett. d).

In questo quadro il segretario appare un pesce fuor d’acqua, appunto stralunato servo di due padroni come nella celebre piece goldoniana. Solo che qui stiamo parlando di un funzionario da cui la Corte dei Conti esige – quale garante della legalità – il rigore della assoluta imparzialità, mentre la normativa vigente lo vorrebbe piuttosto come collaboratore e longa manus del Sindaco. Quindi uomo di parte più che soggetto imparziale al servizio della legalità repubblicana.

Qui l’articolo in versione integrale, completo di note

 

Claudio Rossi

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