Megaupload, cronaca di un sequestro annunciato

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Megaupload è uno dei più grandi siti di filesharing. O meglio lo era prima che, lo scorso 19 gennaio, il Grand Jury federale della Virginia disponesse il sequestro del sito e di tutti i siti web ad esso connessi oltre che le proprietà dei soggetti ritenuti i principali responsabili.

In capo a tutti Kim Dotcom (alias Kim Schmitz) eccentrico fondatore di Megaupload che solo qualche settimana fa dichiarava a Torrentfreak la perfetta liceità delle iniziative commerciali di megaupload.

Non dello stesso avviso, evidentemente, l’autorità federale della Virginia. Il Grand Jury – una sorta di collegio di procuratori che redige l’indictment (che potremmo assimilare, sia pur impropriamente, al “capo d’imputazione”) – ha ritenuto di dover perseguire penalmente (“true bill”) una decina di persone (oltre alle società Megaupload Limited e Vestor Limited) per i reati federali di associazione a delinquere finalizzata alla commissione di violazioni in materia di copyright e riciclaggio di denaro.

I reati contestati agli indagati legati a Megaupload, la cosiddetta Mega Conspiracy, riguardano innanzitutto le violazioni in materia di diritto d’autore (che in USA rappresentano crimini federali e per i quali, in sostanza, è prevista la giurisdizione esclusiva delle corti federali rispetto a quelle statali). Le pene previste arrivano sino a 10 anni di reclusione, poi, per il reato di riciclaggio di denaro, ossia per aver reinvestito i proventi derivanti dall’attività gestita con Megaupload. Ma gli stessi reati per violazione di copyright comportano l’applicazione di pene detentive sino a cinque anni per raccolta di debito illegale e per la diffusione tra il pubblico di opere anche ancora in fase di distribuzione dai copyright holders.

Ma cosa è Megaupload?

Megaupload era un cosiddetto cyberlocker, ossia un fornitore di file hosting, una sorta di hard disk remoto. E Megaupload aveva a disposizione molti server dai quali offrire i circa 30 petabyte di storage.

Possiamo distinguere due utenti-tipo di Megaupload. Il primo è l’utente comune, non registrato, il “free-user” che poteva avere accesso ai file con una capacità ridotta di banda in download e con un limite di 72 minuti alla visione tramite Megavideo.

Dall’altra vi sono gli utenti “premium” ossia coloro che potevano anche trarre un vantaggio economico dall’upload di file sulla piattaforma Megavideo e che non avevano alcuna limitazione di banda o di tempo.

Come il Grand Jury si è convinto della responsabilità dei gestori di Megaupload?

Nell’atto di indictment vengono elencati una serie di elementi a giustificazione della decisione di agire penalmente nei confronti dei gestori di Megaupload. Ciò che i procuratori federali descrivono nell’indictment è teso a rimuovere ogni dubbio circa il fatto che Kim Dotcom e i suoi compagni di sventura fossero pienamente consapevoli che le attività poste in essere attraverso Megaupload violassero le norme a tutela del copyright.

Potremmo riassumere l’obiettivo dei procuratori federali con: “Megaupload non può essere considerato come un semplice fornitore di file hosting. Il suo scopo è quello di creare una rete illecita di distribuzione di opere protette e i gestori erano pienamente consapevoli che, almeno in parte, il materiale diffuso attraverso Megaupload violava le norme sul copyright e, ciò nonostante, continuavano a diffonderli”.

E per giungere a tale obiettivo l’indictment parte da alcune osservazioni:

  1. Il sistema Megaupload prevede che ciascun file uploadato dall’utente “comune” sui server di Megaupload venga automaticamente cancellato se non venga scaricato almeno 1 volta ogni 90 giorni (questo limite viene innalzato solo per gli utenti “premium”). Nelle considerazioni dei procuratori federali questo limite esclude che la funzione di Megaupload fosse quella di offrire un servizio di online file-hosting o di backup remoto. Chi si affiderebbe, infatti, ad uno storage che dopo 90 giorni cancella i contenuti?;
  2. E’ vero che Megaupload non contemplava un motore di ricerca interno ma premiava (con incentivi in denaro) gli utenti “premium” che creassero delle pagine web che riportassero elenchi dei link diretti ai file protetti.
  3. Megaupload prevedeva anche un sistema “Uploader Rewards”: attraverso questo sistema venivano riconosciuti premi in denaro agli utenti che avessero inserito i file “più scaricati”.
  4. Gli indagati nel caso Megaupload avevano interagito con gli utenti dei siti che pubblicizzavano i link al materiale protetto hostato su Megaupload e ne conoscevano, pertanto, il contenuto. Oltretutto gli indagati – così come dimostrato dall’enorme mole di email intercettata e sequestrata ai gestori di Megaupload e riportata sull’atto di accusa stilato dal Grand Jury – avevano scambiato tra loro e più volte link relativi a materiale protetto e ne commentavano la qualità. Le email intercettate alla Mega Conspiracy coprono un vasto arco di tempo: dal 2006 al 2011.
  5. In alcune email i componenti della “Mega Conspiracy” facevano riferimento anche al funzionamento dell’Abuse Tool, uno strumento negoziato con alcune grosse aziende statunitensi dell’entertainment, in base al quale i titolari dei diritti potevano indicare e segnalare e, di conseguenza, far rimuovere il link al materiale ospitato sui server di Megaupload. In alcuni casi lo stesso Kim Dotcom consigliava di limitare il numero di richieste di cancellazione che i titolari potessero inoltrare (il limite previsto era 2500) senza, comunque, consentire una illimitata possibilità di rimozione di materiale protetto ai copyright holders. Pertanto l’Abuse Tool non rispettava il DMCA come i detentori dei diritti d’autore ritenevano.
  6. E ciò perché quando un utente eseguiva l’upload di un’opera già contenuta sui server di Megaupload non ne creava un doppione. Il sistema forniva, invece, un nuovo URL che “puntava” al file già esistente sui server. La cancellazione di un URL con l’Abuse Tool non avrebbe eliminato il file ma solo uno dei link al file.
  7. Sui server di Megaupload veniva inserito altro materiale illecito, ad esempio materiale pedopornografico o video di propaganda terroristica. In questi casi Megaupload riusciva a identificarli ed ad eliminarli del tutto dai server attraverso una verifica dell’hash md5. Ritengono i Procuratori che lo stesso procedimento si sarebbe potuto applicare anche al materiale coperto da copyright. Il fatto che non lo facessero ma tenessero un Abuse Tool inutile dimostrava la volontà della Mega Conspiracy di continuare a violare le norme in materia di copyright.
  8. I componenti della Mega Conspiracy, sempre nelle email portate all’attenzione dei procuratori federali, facevano riferimento ai casi “meno importanti” (o meno rischiosi) di richiesta di rimozione ai quali non si sarebbe dovuto dar seguito per evitare di subire grosse perdite nei ricavi. In un caso, ad esempio, di decise di ignorare la richiesta di rimozione di circa 12.000 opere protette solo in quanto la richiesta proveniva dal Messico.

Poiché i reati contestati alla Mega Conspiracy richiedono che il soggetto attivo sia animato da dolo e che vi sia, pertanto, la consapevolezza di violare il copyright il Grand Jury ha ritenuto di aver sufficiente materiale a disposizione per poter procedere penalmente.

Il Grand Jury ha, quindi, richiesto il sequestro dei beni dei componenti della Mega Conspiracy e il sequestro dei domini web collegati a Megaupload (Megastuff.co, Megaworld.com, Megaclicks.co, Megastuff.info, Megaclicks.org, Megaworld.mobi, Megastuff.org, Megaclick.us, Mageclick.com, Hdmegaporn.com, Megavkdeo.com, Megaupload.org, Megarotic.com, Megaclick.com, Megavideo.com, Megavideoclips.com, Megaporn.com) con azioni che si son svolte in varie parti del mondo: dalla Virginia ad Hong Kong, dalla Nuova Zelanda alla Germania, dall’Olanda al Canada.

Il 19 gennaio settantasei agenti armati, scortati da due elicotteri, hanno fatto irruzione nella mega-tenuta del signor Megaupload nelle campagne nei pressi di Auckland dove hanno prelevato anche le numerose auto di lusso di Dotcom (tra cui una Cadillac rosa!) e quattro degli appartenenti alla Mega Conspiracy (oltre a Kim Dotcom anche Mathias Ortmann, Finn Batato e Bram van der Kolk) per essere condotti davanti al Tribunale che dovrebbe decidere sulla loro estradizione in USA.

L’azione contro Megaupload ha suscitato il timore di un atto di censura globale in nome del copyright ed ha scatenato quella che su twitter è stata battezzata la “prima guerra digitale” della storia.

Le reazioni sul web

Oltre agli utenti Premium che pensano a richiedere indietro i file scaricati lecitamente su Megaupload (http://torrentfreak.com/feds-please-return-my-personal-files-megaupload-120120/), nelle ore immediatamente successive al sequestro di Megaupload, il collettivo Anonymous ha preso di mira i siti web delle autorità governative e dei copyright holders. Una dopo l’altra cadono sotto gli attacchi DDos i siti del dipartimento di giustizia statunitense, della RIAA, della Universal Music Group (UMG), MPAA.org, copyright.gov, EMI, hadopi.fr, fbi.gov, Anti-piracy.be/nl, ChrisDodd.com, Vivendi.fr e Whitehouse.gov.

Il collettivo affida poi alle pagine di pastebin la rivendicazione degli attacchi (http://pastebin.com/WEydcBVV) anzi di quello che viene definito “our largest attack ever on government and music industry sites”.

I possibili esiti

Considerata l’enorme mole di informazioni a disposizione dell’autorità federale statunitense sugli utenti Premium di Megaupload è ben possibile che tali elenchi vengano trasmessi alle autorità competenti territorialmente affinché procedano separatamente. E’ possibile, ad esempio, che l’elenco degli utenti italiani di Megaupload che abbiano diffuso materiale protetto da copyright venga trasmesso all’Autorità giudiziaria italiana, la quale potrebbe decidere di esercitare l’azione penale nei confronti dei soggetti che si trovino sul territorio italiano. Probabilmente verrebbe contestato il reato di cui all’art. 171, lett. a-bis) L. 633/41 (legge in materia di protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio) se non vi sia stato uno scopo di lucro, mentre se l’utente ha diffuso il materiale protetto a fini di lucro (ad esempio sfruttando l’“Uploader Rewards” di Megaupload) potrebbe configurarsi la più grave figura delittuosa prevista dall’art. 171-ter della stessa legge.

Francesco Paolo Micozzi

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