Due domande sui giovani

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Nei periodi di crisi, quando tutto quello che si è fatto in passato sembra la causa dei disastri presenti, la cosa più ovvia da fare è guardare al futuro. Guardare al futuro presupporrebbe la proposta di soluzioni, progetti e piani lungimiranti di riforme e rinnovamenti, che scaturiscano da analisi della situazione attuale almeno di poco più ponderate del rimpianto della lira. Indi per cui, tutti gli analisti socioeconomici della domenica si guardano bene dal farlo.

Molto più facile è oracolare che bisogna puntare sui giovani. “Puntare sui giovani” è un’espressione volutamente vaga che serve ad esimere chi la pronuncia dal dire effettivamente qualcosa, permettendo a chi l’ascolta di capire quello che gli pare.

Uno dei (tanti) concetti che si cerca di veicolare con tale espressione è forse la speranza che tutte le persone aventi un’età inferiore a non si capisce bene quanti anni siano capaci di usare le risorse intellettuali a loro disposizione in un modo nuovo e migliore di quello adottato finora.

È una speranza fondata, questa? Quali risorse intellettuali può dare la cultura italiana?

Ancora convinta di essere una vergine rapita dai barbari germanici, la cultura italiana –quella gratuita, almeno- è quella che chiede ai giovani di imparare latino, greco e burocratese, e che insegna loro che il raggiungimento di posizioni altolocate è inversamente proporzionale alla comprensibilità del proprio linguaggio da parte di più persone possibili. Quelle stesse persone, per inciso, di cui poi si lamenta l’adesione al populismo.

Credendo di ossequiare la sua storia, la cultura italiana si aggroviglia fiera sul principio del “non si può, se prima…”: “non si può imparare l’inglese, se prima non si sa bene l’italiano”; “non si può imparare la storia degli anni Novanta se prima non si conosce bene la storia greca e romana”, e così via, a piacimento, per tutti gli ambiti del sapere. Parte integrante della cultura italiana è, poi, la lagna greca sull’inestirpabile maccheronismo dell’italiano all’estero, sul lavoro che manca o sulla classe dirigente inadeguata, trattata sempre, forse per abitudine, da élite imposta da una qualche potenza straniera.

Che giovani può forgiare, allora, la cultura italiana?

Se l’Italia è avviluppata nel mito di se stessa, e passa il tempo a piangere compiaciuta sulle proprie rovine, forse i suoi giovani non sono che prefiche classiste e nostalgiche allenate a questa lagna. E forse, allora, per cambiare le cose non basta essere giovani. Bisogna avere propensione all’iconoclastia.

 

Marco Lo Monaco

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