Lo “spostamento” delle festività civili nel decreto legge 138 del 2011

Luigi Oliveri 18/08/11
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Una delle disposizioni più ad “effetto” e, per questo, più criticabili del d.l. 138/2011 è quella riguardante lo spostamento delle festività civili. Il punto è previsto dall’articolo 1, comma 24: “a decorrere dall’anno 2012 con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, da emanare entro il 30 novembre dell’anno precedente, sono stabilite annualmente le date in cui ricorrono le festività introdotte con legge dello Stato non conseguente ad accordi con la Santa Sede, nonchè le celebrazioni nazionali e le festività dei Santi Patroni in modo tale che, sulla base della più diffusa prassi europea, le stesse cadano il venerdì precedente ovvero il lunedì seguente la prima domenica immediatamente successiva ovvero coincidano con tale domenica”.

La stampa quotidiana non sapendo come meglio sintetizzare la previsione ha lasciato intendere che le festività non “concordatarie” sarebbero coincise con la domenica. Le cose, come si nota leggendo la norma, non stanno così.

La manovra estiva 2011-bis nella realtà ha il ruolo di essere “anti-ponte lungo”. In effetti, in Italia, di ponti lunghi può esserci (molto, ma molto ottimisticamente) solo quello sullo stretto di Messina. Certo, l’idea di rinunciare ad un’opera faraonica come questa e di impiegare le risorse liberate in altre finalità, viste le necessità della finanza pubblica non sarebbe stata male.

Invece, le sorti del Paese sono rimesse alla rinuncia alle festività. Lo scorso anno, la manovra (sempre estiva) 2010 aveva ridotto o eliminato le spese di viaggi e di trasferta, apportando anche forti tagli alla cultura. Quest’anno eliminiamo qualche festa. La cosa atterrisce un po’: quando una famiglia affronta una crisi finanziaria, le prime cose che taglia sono cultura, viaggi e tempo libero…

Almeno si fosse adottata una scelta drastica: le feste non concordatarie siano una volta e per sempre da tenere in un certo giorno. Macchè. Le opzioni sono tre: accorparle alla domenica (che precede o che segue?), oppure al venerdì, o, ancora, al lunedì. Piccola segnalazione: esistono uffici pubblici o che svolgono servizi pubblici (si pensi a quelli postali), che lavorano anche il sabato, ma nessuno se n’è accorto.

Ad esercitare l’opzione, entro il 30 novembre di ogni anno, sarà il Presidente del Consiglio, con proprio decreto. Ponendo mente alla stucchevole e lunghissima gestazione della decisione se e in quale giorno celebrare i 150 anni dell’Unità d’Italia, c’è da rabbrividire: il rischio è che ogni anno si possa ripetere la medesima avvilente manfrina.

Sì, perché è forte il sospetto che la scelta non sia stata dettata tanto dalla possibilità di accrescere di uno 0,2% il Pil, quanto di fare giustizia di festività non del tutto gradite a non pochi schieramenti politici oggi parte della maggioranza (si veda l’interessante articolo Ma il 25 aprile non si può spostare, di Alessandro Pace su La Repubblica on line del 17 agosto 2011). Da anni, ormai, le polemiche sul 25 aprile ed il primo maggio, condite da ostentate assenze (un po’ alla Nanni Moretti…) alle celebrazioni, infuocano. Eppure, il 25 aprile è la data della caduta definitiva della dittatura. Ed il primo maggio, oltre al valore simbolico di una festa che celebra uno degli elementi fondanti della dignità dell’uomo e della stessa Costituzione – secondo l’articolo 1, che non risulta essere stato ancora abolito, L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro – è anche una festa insanguinata, a causa della strage di Portella della Ginestra del 1947, una delle date fondamentali nella lotta, ancora purtroppo in piedi, della società civile contro la criminalità organizzata. Celebrare il 25 aprile o il primo maggio in una data diversa (un po’ come gli adolescenti fanno a scuola) non è, non può essere la stessa cosa.

C’è anche il dubbio che determinati valori e conquiste della storia unificante e del lavoro possano andare perdute: via le feste (persino quella del santo patrono, con un’inusitata perdita di potere dei vescovi, che forse non se ne sono ancora resi conto…), tra poco riduzione anche delle ferie o, anche, riduzione del pagamento durante le ferie, se non tornare alle ferie non pagate.

In nome, ovvio, della produttività. Quella di chi lavora e le tasse le paga.

Per gli altri, tanto, è sempre festa…

Luigi Oliveri

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