Il danno esistenziale come l’araba fenice

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Il danno esistenziale approda al vaglio della Suprema Corte allo scoccare del nuovo millennio quasi a segnare un’ulteriore espandersi dei beni soggetti a possibili lesioni e garantiti dallo Stato.

La tutela dapprima si riconduce sotto l’egida dell’art. 2043 c.c. a causa della rigidità dell’art. 2059 c.c. e delle sue ormai famose “forche caudine”; di poi nel 2003, a seguito della valutazione di tutti i danni quali conseguenza e della non necessità di “eventizzare” gli stessi al fine di ottenere il risarcimento, una volta ricondotte le categorie – biologico, morale ed esistenziale – all’interno del raggio applicativo dell’art. 2059 c.c. anche se con lettura costituzionalmente orientata, dottrina e giurisprudenza valutavano l’utilità e correttezza della permanenza nel nostro sistema della risarcibilità in via autonoma del danno esistenziale.

Per danno esistenziale si intende la lesione del diritto al libero dispiegarsi delle attività umane, alla libera esplicazione della personalità; nel gergo giuridico la lesione del fare a-reddituale di un soggetto, lo sconvolgimento dell’organizzazione della quotidianità, delle abitudini che compongono lo scorrere del tempo di ogni uomo.

Il dibattito negli anni si è fatto sempre più acceso fra coloro che ritenevano il danno esistenziale una categoria decisamente autonoma, in quanto distinta sia dal danno biologico quale lesione dell’integrità psico-fisica che dal danno morale quale pati transeunte,  nonchè meritevole di tutela  con unico limite il dettame Costituzionale, e coloro i quali, di contro, riscontravano nella liquidazione di un tale danno una duplicazione del risarcimento fondando la propria tesi sul principio che ad esser risarcito è il pati e non il facere.

Nel 2008 all’apice della diatriba con ordinanza n° 4712/08 si rimetteva alle SS.UU. la questione ben più ampia del danno non patrimoniale ed affini, con otto quesiti ai quali gli Ermellini avrebbero dovuto dare risposta; uno in particolare sulla risarcibilità del danno esistenziale e modalità di liquidazione dello stesso.

Nel “funesto” mese di novembre giunse la risposta delle SS.UU. con sentenza n°26972 che con una rivoluzione epocale scardinavano i principi della liquidazione del danno non patrimoniale, elidendo le categorie di danno biologico e morale e statuendo che di danno esistenziale “non è più dato discorrere”.

La prima reazione a tale sovversione del sistema è stata di certo quella dello sconforto generale ed in particolare dei colleghi specializzati nella materia, che vedevano svanire gli sperati lauti risarcimenti.

Ma la preannunziata rivoluzione è stata tale?

E soprattutto il danno esistenziale è realmente stato soppresso poiché inutile duplicazione del danno biologico e morale?

A ben valutare la giurisprudenza dei Tribunali e Giudici di Pace dalle SS.UU. ad oggi, tranne casi “estremi” ma anche rari, ha applicato i principi espunti con la dovuta cautela e rispettando le “categorie” danno biologico e danno morale anche se camuffandole da specifiche riconducibili all’unitaria categoria danno non patrimoniale.

Ciò nel pieno rispetto dell’antico assioma “fatta la legge trovato l’inganno”.

Ma nonostante la macchina giudiziaria non si sia bloccata davanti alle difficoltà applicative nascenti da quanto statuito dagli Ermellini, ciò non significa che la stessa prosegua a regime e senza incertezze, poiché la “nebbia” continua ad esser molto fitta e le diatribe sull’argomento non si sono mai sedate.

Quanto affermo è ancor più vero proprio con riferimento specifico al danno esistenziale che dichiarato assolutamente ”superfluo” dalle SS.UU. non sembra aver trovato pace nel proprio dorato sepolcro.

Svanito, o nascosto per un piccolo lasso di tempo, nella giurisprudenza del 2010 in particolare sembra risorgere dalle proprie ceneri come la fenice.

Di danno esistenziale si risente discutere in particolare in ambito di diritto del lavoro, ove si riconosce al dipendente pubblico un risarcimento per mancato riscatto delle annualità e ricongiunzione del periodo contributivo.

La Suprema Corte ritiene, infatti,  leso il diritto del soggetto che a causa della mancata massimizzazione dei contributi non può usufruire del dovuto collocamento a riposo.

Tale violazione ha reso impotente il libero arbitrio del lavoratore costretto ad impegnare il proprio tempo nello svolgimento dell’assegnato compito lavorativo piuttosto che in altre attività già predeterminate od anche auspicate dallo stesso.

La qualificazione del danno risarcito a codesto ultimo è quella di danno esistenziale autonomamente determinato (Cass. Lav. 3023/2010).

Ed ancora la Suprema Corte con la Sentenza 12318/10 (sez. Lav.) legittima, in caso di risarcimento per molestie sessuali in ambito lavorativo, l’integralità della liquidazione con considerazione del danno biologico, morale ed anche esistenziale.

Ma non solo in materia giuslavoristica i Tribunali e Corti superiori riconoscono tale forma autonoma di risarcimento, anche le sezioni civili stanno ritornando sul punto relativamente ad argomenti già valutati e ritenuti di grande importanza prima della sentenza del 2008.

Detti Organi Giudicanti, ad esempio, hanno già riconosciuto il risarcimento da nascita indesiderata scaturiente da trasformazione delle prospettive di vita dei genitori i quali avrebbero dovuto misurarsi per sempre con le prevalenti esigenze del figlio, tali da determinare “rovesciamenti forzati d’agenda”, qualificando tale danno, seppur richiamandosi alla dottrina e senza stigmatizzarlo – quasi avessero timore nel farlo – , quale esistenziale. (Cass. Civ. 13/2010)

In definitiva, la svolta epocale probabilmente è stata più un gran fuoco di paglia che dopo gli iniziali attimi di terrore ha lasciato dietro di se soltanto una piccola brace; detto ciò non è da escludersi che le SS.UU. vengano nuovamente interpellate in un futuro forse non troppo lontano al fine di sciogliere il bandolo della matassa.

Antonella Gubernale

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