L’interruzione di pubblico servizio nei contratti di appalto

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Giunge voce, a proposito di prepotenze e soprusi da parte di chi dovrebbe tutelarci – mi riferisco alla Pubblica Amministrazione ed ai suoi funzionari – che più d’una Amministrazione, dopo avere stipulato con imprenditori privati contratti per forniture o somministrazioni di beni e servizi “pubblici” (acqua, immondizia, depurazione acque reflue, servizi ambientali, etc.), si rifiuti di pagare le fatture presentate a saldo dei lavori effettuati, adducendo non ben dimostrate o giustificabili incapienze di cassa.
Anche per mesi, e mesi, e mesi, e mesi, e mesi …

E se poi lo stesso imprenditore che non ha i soldi per proseguire il servizio, o per pagare mezzi ed operai, comunica alla Pubblica Amministrazione di essere costretto ad interrompere il lavoro – perché materialmente le banche gli hanno tagliato i fondi, perché non vuole ricorrere agli usurai, perché è sull’orlo del fallimento anche a causa della inadempienza della Pubblica Amministrazione – pare che più di qualche pubblico funzionario sia solito rispondere “se interrompi il lavoro ti denuncio per interruzione di pubblico servizio”. Il che, in altre parole, vuol dire: ti faccio condannare  sino a un anno di reclusione (è questa la pena edittale prevista dall’art. 331 c.p.), e ti faccio anche finire di lavorare nel settore pubblico dove nessuno ti prenderebbe mai con un precedente ostativo di questo genere.

Che non tutti i Pubblici Amministratori rispondano così è sin troppo evidente, ma che qualcuno lo faccia sul serio è ben più di una illazione; ed è proprio pensando a questo “qualcuno” che è giusto riflettere sul problema, tanto sofferto e presente sul piano pratico, quanto totalmente assente nelle casistiche del giudice di legittimità e di merito.

E’ come se vi fosse sul tema un vero e proprio buco giurisprudenziale.

E’ come se tali casi non arrivassero mai nelle aule giudiziarie; ipotesi tutt’altro che astratta  posto che, nella realtà, nessun imprenditore vittima di tali prevaricazioni legalizzate ha il coraggio di reagire ad una minaccia che finisce per essere direttamente prodromica all’azzeramento  di ogni possibilità di lavoro con la Pubblica Amministrazione.

Spetta a noi, a freddo, dall’esterno, avere il coraggio di dire che la minaccia in questione – “se interrompi il lavoro ti denuncio per interruzione di pubblico servizio” –  potrebbe anche essere giuridicamente illecita, e potrebbe anche avere un nome ben preciso: estorsione ad esempio, prevista dal nostro codice penale all’art. 629 c.p. ed attribuibile a chi “mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno”. Non male la punizione della reclusione da cinque a dieci anni!

Tralasciamo che un “ricatto” – il termine volgare rende certamente meglio il concetto – ad opera di un soggetto che riveste la qualifica di Pubblico Ufficiale comporta un aumento di pena, sino a un terzo, in ragione dell’applicazione della circostanza aggravante di cui all’art. 61, n. 10 o n. 11, del codice penale.

Esagerato? Paradossale? Impossibile? Inverosimile?

Non del tutto.

Non sino a quando il sottile filo che lega il piano della pazienza del comune uomo di strada alle fragili basi della sopportazione psicologica di un imprenditore ormai stanco ed esausto di continue richieste di pagamento inevase, si spezzi e faccia dilagare i fiumi di intima ribellione covati dentro da chissà quanto tempo.

Perché non si parla certo dell’imprenditore milionario, del riccone dalle mille e una  aziende, dell’operatore economico quotato in borsa, ma del piccolo e medio appaltatore, scudisciato in piena faccia dalla frustata della crisi economica!

Da giurista, si impongono alcune sottolineature squisitamente tecniche.
Una primo dato di partenza è che la minaccia di essere denunciati per interruzione di pubblico servizio presuppone – a monte – un contratto viziato da disparità di diritti e dall’imposizione di doveri solo in capo all’imprenditore che deve rendere il servizio.

In buona sostanza, se il contratto prevede – come dovrebbe fare – il diritto dell’ imprenditore di essere pagato regolarmente ma anche quello di potere ritenere risolto il contratto in caso di inadempimento da parte della Pubblica Amministrazione (v.  art. 1456 del codice civile:“I contraenti possono convenire espressamente che il contratto si risolva nel caso che una determinata obbligazione non sia adempiuta secondo le modalità stabilite. In questo caso, la risoluzione si verifica di diritto quando la parte interessata dichiara all’altra che intende valersi della clausola risolutiva”), così come di potere sollevare l’eccezione d’inadempimento di cui all’art. 1460 cod. civ. (“Nei contratti con prestazioni corrispettive, ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione, se l’altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria”), non c’è davvero ragione di minacciare alcunché. Le minacce lasciano il tempo che trovano di fronte a chi è in grado di opporre solidi scudi di natura giuridica e processuale.

Il problema, però, è che spesso l’imprenditore è “costretto” (pena la perdita dell’occasione di lavoro) a firmare contratti tanto certosini nello stabilire obblighi, controlli, penali, risoluzioni, recessi unilaterali in favore dell’Ente Pubblico, quanto dittatoriali nel pretendere la rinuncia espressa al succitato art. 1460 cod. civ. o all’art. 1664 cod. civ. (“Qualora per effetto di circostanze imprevedibili si siano verificati aumenti o diminuzioni nel costo dei materiali o della mano d’opera, tali da determinare un aumento o una diminuzione superiori al decimo del prezzo complessivo convenuto, l’appaltatore o il committente possono chiedere una revisione del prezzo medesimo”).

In questi casi, l’imprenditore si trova in posizione di assoluta ed irrimediabile inferiorità ed impotenza. E purtroppo, neanche la norma penale lo aiuta più di tanto.

Il reato di interruzione di servizio – previsto dall’art. 331 cod. pen. in forma aggravata se commesso direttamente dall’incaricato di pubblico servizio o esercente un servizio di pubblica necessità, e dall’art. 340 cod. pen. se posto in essere da un privato che cagioni la stessa interruzione – si riferisce, per tradizione, a situazioni specifiche estreme: il medico di guardia reperibile che disattiva il telefono per non farsi trovare; gli studenti che occupano la strada ferrata per non fare passare il treno; i lavoratori scioperanti che fanno il blocco stradale; il bidello della scuola pubblica che abbandona il posto di lavoro per andarsene dal barbiere.

Di fronte ad una fattispecie di reato così generica – possibile contenitore dei più svariati comportamenti – essere accusati di avere interrotto il servizio pubblico della nettezza urbana, o della somministrazione di acqua, o della erogazione di luce, è purtroppo teoricamente ipotizzabile anche in presenza di un giustificato motivo rappresentato dalla circostanza di non essere stati pagati per il servizio reso.

E non è neanche applicabile alcuna delle scriminanti previste nel nostro codice penale dagli artt. 45-54; valga per tutte lo “stato di necessità” di cui all’art. 54, riferibile esclusivamente ad un fatto commesso al fine di evitare un danno “alla persona”, assolutamente mai ad una cosa o ad una azienda.

E allora?

Nessuna speranza per gli imprenditori vittime dello strapotere della Pubblica Amministrazione?

“In apparenza”, un minimo di apertura giurisprudenziale sembrerebbe esserci.

La Corte di Cassazione ad esempio, che ha sempre ritenuto legittimo il taglio di acqua, luce e telefono nei confronti dei morosi, in un caso specifico – in cui il gestore era stato accusato di “interruzione di pubblico servizio” ex art. 331 cod. pen. per avere interrotto il servizio di telefonia sui numeri di emergenza – ha precisato: “non costituisce reato la sospensione della fornitura da parte del gestore del servizio di telefonia relativamente a una determinata utenza in seguito a una controversia insorta col titolare della stessa riguardo al pagamento di una fattura, trattandosi di questione di natura civilistica che deve essere risolta, anche per quanto riguarda la responsabilità, secondo le regole del diritto civile” (Cass. pen., Sez. VI, 24 maggio 2007, n. 37083).

Ma non è casuale avere detto “in apparenza”, considerato che è la stessa sentenza ad aggiungere: “ai fini della configurabilità del reato è necessario che sia interrotto o turbato nella sua regolarità il servizio nel suo complesso, restando esclusa dalla previsione normativa la condotta limitata a singole utenze, che incide solo marginalmente sul volume dell’attività svolta e non è quindi in grado di interromperla o di comprometterne in modo apprezzabile il funzionamento”.

Per dirla in breve: se è moroso il vecchietto che non può chiamare il 118 perché la pensione gli è arrivata in ritardo e non ha pagato la bolletta, è giusto “interrompergli” il servizio, si tratta di una utenza isolata e chi se ne frega….; se è, invece, morosa l’azienda municipalizzata o il Comune che non ha pagato le bollette per dare precedenza a chissà quali altri spese, più o meno necessarie od opportune, è invece legittimo denunciare il gestore per interruzione di pubblico servizio.

O forse, si dovrebbe fare come quell’imprenditore del gruppo degli intercettatori per il Tribunale di Milano – creditori nei confronti del Ministero di Grazia e Giustizia per quasi 10 milioni di euro!!!!! – che pare sia stato assolto dal reato di evasione proprio adducendo l’esistenza di questa forte posizione creditoria? Francamente, non confiderei molto in questa sorta di esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Anche perché non è detto che tutti i giudici siano disposti a pronunciare sentenze assolutorie in simili condizioni.

La verità è che il Diritto  – tristissima ma realistica constatazione – non è un “mago Merlino”.

Franzina Bilardo

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