DURC e tracciabilità: da verifica della regolarità delle imprese ad alibi per i ritardi nei pagamenti

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Oggi, sono sempre maggiori gli adempimenti richiesti alle imprese che, aggiudicatarie di un appalto, vogliono essere regolarmente pagate da parte della P.A. per le prestazioni effettuate in esecuzione del contratto pubblico. Tra questi, hanno particolare rilievo, da un lato, gli obblighi relativi al DURC, dall’altro, quelli posti dalla normativa atta a garantire la tracciabilità dei pagamenti per evitare infiltrazioni mafiose.

Occorre qualche chiarimento.

Il Documento Unico di Regolarità Contributiva (DURC) è il certificato che, sulla base di un’unica richiesta, attesta contestualmente la regolarità di un’impresa per quanto concerne gli adempimenti INPS, INAIL e Cassa Edile. Il DURC offre un monitoraggio completo sul rapporto assicurativo e previdenziale fungendo da “filtro” per l’accesso agli appalti, in quanto strumento atto a contrastare concorrenza sleale e lavoro sommerso, attraverso la creazione di un’apposita banca dati. È inoltre il presupposto per fruire dei benefici normativi e contributivi in materia di lavoro e legislazione sociale, nonché delle agevolazioni previste dalla disciplina comunitaria.

Nel caso di un DURC negativo, cioè di irregolarità contributiva dell’impresa nei confronti di anche uno solo dei soggetti INPS, INAIL o Cassa Edile, oltre alle ordinarie azioni di recupero del credito da parte degli enti, l’impresa nei lavori pubblici perde l’aggiudicazione dell’appalto, non potrà stipulare contratti di appalto o subappalto, non avrà diritto al pagamento dello stato di avanzamento lavori né delle liquidazioni finali; nei lavori privati avrà la sospensione del titolo abilitativo connesso alla concessione edilizia o alle DIA; non avrà l’attestazione da parte delle SOA (Società Organismi di Attestazione).

La legge 136/2010, in vigore dal 7 settembre, recante “Piano straordinario contro le mafie”, allo scopo di prevenire le infiltrazioni mafiose ed eliminare dal mercato degli appalti imprese che, per la loro contiguità con la criminalità organizzata, operano in modo irregolare ed anticoncorrenziale, vieta, negli appalti e nei subappalti, il ricorso alla modalità di pagamento per contanti ed impone l’apertura di un conto corrente dedicato per singolo appalto, dettando una serie di minuziose prescrizioni.

Le incertezze applicative della legge avevano, però, determinato un blocco dei pagamenti da parte della pubblica amministrazione per gli appalti in corso di esecuzione, rendendo pertanto necessario, a distanza di pochissimo tempo, un nuovo intervento del Governo con il decreto legge 12 novembre 2010 , n. 187, “Misure urgenti in materia di sicurezza”, convertito con legge n. 217/2010, che detta disposizioni interpretative e attuative delle norme in materia di tracciabilita’ dei flussi finanziari.

Gli stringenti adempimenti introdotti, pur se giustificati da nobili finalità, hanno, tuttavia, una portata applicativa distorta in quel dedalo che è oggi la burocrazia italiana.

Se, da un lato, i pagamenti della P.A., in materia di appalti, sono subordinati al rispetto dei prescritti obblighi contributivi, previdenziali, dall’altro lato sono effettuati, il più delle volte, in ritardo. Ciò ha innescato un circolo vizioso da cui è difficile uscire: il ritardo nei pagamenti determina una difficoltà delle imprese ad adempiere agli oneri contributivi; ma le imprese, che diventano così irregolari, non possono ottenere il DURC e quindi proprio quel pagamento da parte della PA che è all’origine della mancanza di liquidità e dell’irregolarità. Inutile dire come tale sistema abbia effetti distorsivi della libera concorrenza e discriminatori nei confronti delle imprese più piccole.

L’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, nella Determinazione n. 4 del 7 luglio 2010, ha evidenziato, in relazione all’anno 2009, che i tempi di pagamento oscillano in un range che va da un minimo di 92 giorni ad un massimo di 664 giorni, con una media circa doppia rispetto a quanto si registra nel resto dell’U.E.: 128 giorni contro i 65 a livello europeo.

Sono state, inoltre, rilevate sensibili differenze sul piano territoriale: i ritardi che superano i due mesi sono segnalati dal 36,4% delle imprese del Nord-Est, percentuale che sale al 61,5% nel Nord Ovest e al 63,3% nel Mezzogiorno.

Il ritardo è, per lo più, imputato a lentezze che derivano da vischiosità burocratiche interne alla pubblica amministrazione
La conseguenza è che questo tipo di mercato finisce con il privilegiare le grandi imprese e colpisce, in maniera irreversibile, le piccole e medie imprese che rischiano, pertanto, di uscire definitivamente dal sistema. Il tutto, come è facile intuire, determina conseguenze di rilevante entità sulla concorrenza, falsando, in misura considerevole, il regolare andamento del mercato.

Eppure non mancano leggi in proposito, primo tra tutti il decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231, emanato in esecuzione della legge delega attuativa della direttiva dell’Unione europea 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali.

L’intervento dell’AVCP, anzi, si è imposto proprio perché, a seguito di apposita indagine, è emerso che presso talune amministrazioni appaltanti era invalsa la prassi di individuare unilateralmente – nel bando di gara o nell’ambito del contratto d’appalto – termini di pagamento superiori o tassi di mora inferiori rispetto a quelli previsti dal citato D.Lgs. 231/2002.

L’Autorità di Vigilanza per i Contratti Pubblici ha perciò rilevato l’erronea o difforme applicazione, da parte della P.A., della normativa comunitaria sui ritardati pagamenti ed ha osservato che le stazioni appaltanti non possono subordinare la partecipazione alle procedure di gara o la sottoscrizione del contratto all’accettazione di termini di pagamento, di decorrenza degli interessi moratori e misura degli interessi di mora difformi da quelli previsti dal decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231, né prevedere tale accettazione come elemento di favorevole valutazione delle offerte tecniche nell’ambito del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa.

Ciononostante, la direttiva dell’Unione europea 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali ha avuto un impatto limitato, anche a livello europeo. La stessa UE ha rilevato come i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali siano ancora diffusi, con considerevoli disparità tra Stati membri in termini di periodi di pagamento.

È perciò intervenuta recentemente con una nuova direttiva di modifica, approvata dal Consiglio dell’Unione europea lo scorso 24 gennaio, che dovrà essere recepita dagli Stati membri prima del 2013.

La nuova direttiva riduce i termini concessi alla P.A. per il pagamento e inasprisce le misure in caso di loro violazione, con particolare riferimento all’elevazione del tasso di mora.

Scoraggia, inoltre, la possibilità di derogare alle sue disposizioni: una clausola o una prassi sarà ritenuta gravemente iniqua e potrà non essere fatta valere o darà modo al risarcimento del danno subito, se sarà relativa alla data o al periodo di pagamento, al tasso dell’interesse di mora o al risarcimenti per i costi di recupero.

Resta da chiedersi se sarà sufficiente la normativa comunitaria a cambiare la prassi incompatibile delle Pubbliche Amministrazioni italiane. In caso contrario, potrebbe profilarsi margine d’intervento dinanzi alla Commissione europea ai fini dell’avvio di una procedura d’infrazione, nei confronti dello Stato italiano, per erronea o difforme applicazione della normativa comunitaria (finora sussistente, come rilevato dalla stessa Autorità di Vigilanza per i Contratti Pubblici), con tutte le conseguenze che ne deriverebbero sotto il profilo sanzionatorio ed, eventualmente, in termini di responsabilità dello Stato e risarcimento danni nei confronti dei singoli.

Ersilia Guzzetta

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